SERIE DA (NON) PRENDERE SUL SERIO – “LUNA NERA”, LA NUOVA SERIE ITALIANA DI NETFLIX, È UN’OCCASIONE MANCATA: AMBIENTAZIONI IMPRESSIONANTI, COSTUMI CURATI, MA FOTOGRAFIA DELUDENTE E PIATTA – LA REGIA INCESPICA E SI RIPETE E RALLENTA IL RACCONTO, E LA RECITAZIONE È ECCESSIVA E SOPRA LE RIGHE - È LA DIMOSTRAZIONE CHE IL COLOSSO DELLO STREAMING NON HA ANCORA UNA LINEA EDITORIALE NEL NOSTRO PAESE… – VIDEO

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Gianmaria Tammaro per www.esquire.com

 

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Netflix è arrivata a un bivio, in Italia. E non è una considerazione, è un fatto. Dopo aver annunciato l’apertura di una sede a Roma, dopo aver promesso 200 milioni di euro d’investimenti nel prossimo triennio, e dopo aver chiuso un accordo con Mediaset per sette film (e averne prodotti altri, piuttosto importanti, con altre realtà), si prepara a distribuire la sua terza serie originale, Luna nera.

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Che sì, è vero: sulla carta rappresenta un’idea meravigliosa, un progetto stupendo, un passo in avanti deciso e decisivo nell’industria italiana, e non solo per le donne coinvolte, per i ruoli che sono stati ritagliati, ma anche per la decisione con cui il genere fantasy è stato trattato.

 

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Il problema – sì, c’è un problema – è che cosa, alla fine, è Luna nera. Ambientazioni impressionanti, costumi curatissimi, ma fotografia povera, deludente, piatta. Regia che incespica più volte, che si ripete, che non aiuta il racconto ma che, anzi, lo rallenta. E poi la recitazione: eccessiva, sopra le righe, stonata, infiacchente, totalmente fuori fuoco.

 

Luna nera non è solo, e banalmente, un’occasione mancata. Ma è anche la dimostrazione che Netflix, nel nostro paese, non ha ancora studiato una vera e propria linea editoriale, che manca di qualcuno pronto ad intervenire attivamente nelle produzioni e nelle scelte di produzione, a dire non solo cosa può funzionare (l’abbiamo capito: l’obiettivo è raccogliere nuovi abbonati), ma anche a intuire che cosa può rimanere.

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Nel mondo, ogni anno, vengono prodotte centinaia e centinaia di serie tv. E diventa importante – di più: fondamentale – riuscire a fare la differenza, a stagliarsi sulla competizione, a cambiare le regole del gioco, ad essere i primi e sì, i più bravi. Nel Regno Unito, Netflix produce show come The Crown, Sex Education, The End of the Fucking World. Non parliamo degli Stati Uniti. In Italia, sembra essersi accontentata.

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Luna nera non è la produzione originale migliore del servizio streaming in questo paese: non si avvicina nemmeno ad esserlo. Non c’è una linearità narrativa, e non c’è una costruzione solida che riesca – pure nell’eccesso, pure nell’assurdo – a imbrigliare l’attenzione dello spettatore. Il primo episodio, che prova a gettare le basi per la storia che si svilupperà nel corso della stagione, è debolissimo. Sbagliato.

 

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Gli attori, a cominciare dalla protagonista, Antonia Fotaras, che interpreta Ade, non sono allineati: c’è chi corre troppo, chi urla, chi sussurra in modo confuso; chi spinge sulle parole privandole della loro forza, e chi invece sembra non capire cosa sta dicendo, non a fondo, e lo ripete inconsapevolmente. Le interpretazioni, tra loro, stonano. E rendono la narrazione respingente, non appassionante. Diventa difficile arrivare alla fine, passare alla seconda puntata.

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La storia, in sé, non ha niente di innovativo: c’è lei, presunta strega, figlia di streghe, che deve scappare; viene accolta da altre donne, anche loro streghe, e si innamora di lui, Pietro, interpretato da Giorgio Belli, figlio del cacciatore di streghe, uomo di scienza (è un tormentone: nel primo episodio, lo ripete in quasi la metà delle sue battute).

 

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Questa serie, è stato ripetuto più volte, “racconta una tragedia nascosta”, quella delle donne perseguitate durante l’Inquisizione, uccise, bruciate vive, costrette alla fuga. Un tema così forte e così duro, però, non traspare dalla messa in scena. Non traspare dalla sceneggiatura, che finisce per aggrovigliarsi su se stessa, per cercare in un tono (arcaico, volutamente ricercato) il suo equilibrio, e che però fallisce su tutta la linea.

 

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La regia non riesce a tenere insieme tutti i pezzi, e quella che doveva essere “il primo fantasy italiano”, “il passo in avanti dell’industria italiana”, è una serie mediocre, dimenticabile, che usa il genere solo quando deve, che lo usa male, incertamente.

 

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Netflix, lo dicevamo all’inizio, deve trovare la sua strada; deve capire che cosa fare. Forse, per ora, continuerà a spingere su un prodotto più popolare, senza pretese, per coinvolgere il pubblico più ampio (ma ci sta riuscendo? Gli abbonati sono fermi a 2 milioni). Oppure con l’assunzione di Ilaria Castiglioni nel team delle produzioni originali proverà a cambiare.

 

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 Resta il fatto che in Italia altre realtà stanno puntando sulla qualità, si stanno facendo notare in Europa e nel mondo per le loro storie e per le loro serie, per la loro voglia di sperimentare, di stare al passo, per la loro chiara intenzione di voler dire qualcosa di diverso, di nuovo, di inedito: Sky, Rai, anche la stessa Mediaset, con Il processo.

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Netflix, come Amazon, ha dato una scossa al mercato. Ma a oggi non è ancora riuscita a imporsi, o a distinguersi, per i suoi titoli originali. Ci vorrà del tempo, vero. Ma di tempo ne è già passato molto dal suo arrivo in Italia: e forse è giunto il momento di fare sul serio, di non limitarsi ai proclama, alla buona comunicazione (sempre sia benedetta, per carità) e alle promesse.

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