Stefano Lorenzetto per “l’Arena”
Il malessere inflitto dal benessere è mortifero. Solo chi è stato immunizzato dal secondo riesce a salvarsi dal primo. All’epoca in cui venni al mondo, il vaccino si chiamava poverta. Lo aveva portato la guerra e si somministrava in dosi massicce a tutti gli italiani (allora non esistevano i no vax). I richiami erano quotidiani, non annuali, e duravano per l’intero corso della vita. L’inoculazione non avveniva con le iniezioni. Bastava nascere, respirare, guardarsi attorno. L’antidoto si propagava per via aerea.
Ho ripensato a questa immunoprofilassi di massa la sera di mercoledì scorso, mentre sul palco del teatro Nuovo il mio amico Aldo Cazzullo illustrava alcune pagine scelte dal suo libro - nuovo anche quello - Giuro che non avrò più fame (Mondadori), affiancato dall’attore e regista Paolo Valerio, che le ha rese vive leggendole con il doveroso pathos. Il saggio, dedicato all’Italia della Ricostruzione, prende a prestito il titolo da una frase pronunciata da Rossella O’Hara in Via col vento, quando torna nella tenuta di Tara e la trova devastata dalla guerra.
La madre e stata falciata dal tifo, il padre e impazzito. Lei non mangia da giorni. In quello che resta dell’orto, strappa una piantina, ne bruca le radici per placare i morsi dello stomaco, poi la solleva al cielo e grida: «Giuro davanti a Dio, e Dio m’e testimone, che superero questo momento. E quando sara passato non soffriro mai piu la fame, ne io ne la mia famiglia; dovessi mentire, truffare, rubare o uccidere. Lo giuro davanti a Dio: non so soffriro mai piu la fame!».
Osserva Cazzullo: «Ecco, credo che quel giuramento collettivo l’abbiano fatto un po’ tutti i nostri padri e le nostre madri: gli italiani di settant’anni fa». Lo penso anch’io, e la violazione sistematica di tre dei dieci comandamenti racchiusa in quella promessa solenne mi fa ritenere che vi si attengano, benche ben pasciute, anche le generazioni di oggi, tanto da far sembrare la nostra societa piu una criminocrazia che una democrazia. Alla fine della presentazione, il pubblico ha stretto d’assedio Cazzullo per farsi autografare le copie. «Io sono del ’34», «io del ’29», facevano a gara gli astanti.
ALDO CAZZULLO - GIURO CHE NON AVRO PIU FAME
Era come se esibissero un passaporto, come se dicessero all’autore: io si che posso capire cio che hai narrato, perche l’ho vissuto sulla mia pelle. Mi parevano raggianti di orgoglio, come se qualcuno li avesse finalmente sdoganati, restituendo loro il diritto di cittadinanza in questa Italia che oggi appare decostruita, non ricostruita. C’era persino il cardiologo di Fausto Coppi, un veronese (presumo) che svolse tutta la sua carriera alle Molinette di Torino, felice che fosse stata commemorata la cavalleresca rivalita del suo paziente con Gino Bartali. Quando gli chiedevano chi fosse il piu grande corridore di tutti i tempi, Coppi rispondeva: «Bartali», e Bartali ricambiava: «Coppi».
Era il 1959. Davvero altri tempi. L’inviato e editorialista del Corriere della Sera e nato nel 1966 ad Alba. Un giovanotto. Beato lui. Infatti si capisce, da come parla, che il vaccino della poverta lo ha solo sfiorato. Pero nutre un sacrale rispetto per coloro che vi sopravvissero a stento, come il nonno materno, il quale a 12 anni era gia garzone nella macelleria di Amilcare Fenoglio, padre di quel Beppe che diventera un talento letterario.
Basta leggere l’incipit, folgorante, di Giuro che non avro piu fame: «La notte di Natale del 1948, accanto al presepio - l’albero non si usava -, la maggioranza dei bambini italiani trovo come regalo un sacchetto di mandarini. A volte nemmeno quelli. Iva, una bambina di Gallicano in Garfagnana che allora aveva dieci anni e ora ne ha ottanta, ricorda un sacchetto di fichi secchi, ceci, castagne. Sulle Langhe la piccola Anna ebbe una mucca di terracotta piena di caramelle. Riccardo, sette anni, di Molfetta, ricevette in dono un violino. Pianse e si lamento: voleva un fucile di legno con il tappo.
“Riccardo non e portato per la musica” commento sconsolato il padre, un medico. Di cognome si chiamava Muti». «Avevamo 16 milioni di mine inesplose nei campi», prosegue Cazzullo. «Oggi abbiamo in tasca 65 milioni di telefonini, piu di uno a testa, record mondiale. Solo un italiano su 50 possedeva un’automobile. Oggi sono 37 milioni, oltre uno su due. Tre famiglie su quattro non avevano il bagno in casa; per lavarsi dovevano uscire in cortile o sul balcone.
L’Italia non esportava tecnologia, ma braccia: minatori in cambio di carbone. I soldi non valevano piu nulla, mangiati dall’inflazione. Stava un po’ meglio chi aveva investito nelle case; ma due milioni erano andate distrutte nei bombardamenti. Furono ricostruite in pochi anni. Oggi non riusciamo a coprire le buche nelle strade della capitale. I giornali non pubblicavano diete, ma consigli per alimentarsi con poco: il problema non era dimagrire, era ingrassare. Eravamo un popolo di contadini poveri.
Si faceva il bucato al lavatoio, in piedi, o nei corsi d’acqua, in ginocchio. Cucinavamo con la stufa a legna o a carbone, avevamo difficolta a conservare i cibi, non avevamo idea di cosa fossero vacanze o weekend. Non avevamo neppure l’orologio: la vita era scandita dalle campane; ai rintocchi che segnalavano mezzogiorno tutti si fermavano, dicevano l’Angelus in un latino stentato, e da casa partivano le donne a portare il pranzo a chi lavorava nei campi».
Ho rivisto in questo affresco l’infanzia dei miei genitori e, con minori privazioni, quella dei loro cinque figli. Mia madre mori con le dita deformate perche, a 10 anni, veniva mandata in pieno inverno a lavare i panni alle 4 di notte nel lavatoio pubblico di Marzana. La proprietaria dell’alloggio e della stalla, dove mio nonno carrettiere s’era ingegnato a far convivere i quadrupedi con i bipedi, esigeva che la sua biancheria non venisse sciacquata nell’acqua contaminata da altri.
La bambina si toglieva uno degli zoccoli di legno e con quello rompeva la lastra di ghiaccio che si era formata nottetempo nel vascone. Gia albeggiava quando ritornava a casa con la mastella del bucato. Mio padre nel 1945 si reco da Verona al suo paese natale, Boschi Sant’Anna, in sella a una bicicletta dai cerchioni in legno, 90 chilometri fra andata e ritorno, sfidando i bombardamenti degli Alleati, per farsi rilasciare in parrocchia il certificato di battesimo indispensabile per le pubblicazioni di matrimonio.
Al ritorno fece tappa a Minerbe dalla zia Evelina, sorella di sua madre, che aveva sposato un uomo facoltoso. Sperava di rimediare una minestra o un panino. «Povero ragazzo, non e rimasto nulla», si senti rispondere. Del resto era la stessa zia che diceva alla sorella Teresa, le rare volte in cui veniva in citta per farle visita: «Portarti tanto, non potevo. Portarti poco, mi pareva di offenderti. Quindi non ti ho portato niente». Le nozze dei miei genitori furono celebrate il 19 maggio 1945.
La Seconda guerra mondiale era finita da 25 giorni. Sono andato a rivedermi la foto scattata sul sagrato della chiesa di Marzana: 30 invitati (solo tre quelli ancora in vita). Il piu grasso fra gli adulti sara pesato 50 chili. In famiglia ho sempre sentito chiamare quell’immagine ingiallita «Mauthausen» («Dachau» sarebbe suonato gia piu blasfemo). In effetti sembrano volti di reduci da un campo di concentramento nazista.
I denutriti furono sfamati con un pranzo di nozze autarchico, preparato in casa dalla sposa. Per almeno mezzo secolo rimase viva nei partecipanti la memoria delle crocchette di patate miracolosamente fritte con il burro, allora introvabile. Era quello tedesco in barattolo che lo sposo, qualche mese prima, aveva ricevuto da un ufficiale della Wehrmacht in cambio di un paio di stivali cuciti a mano.
Appartengo alla prima generazione che ha avuto la stufa Fargas a metano al posto della Becchi a carbone (seconda elementare), il telefono a muro della Telve (quarta elementare), il cesso in casa (quinta elementare), la vasca da bagno e il televisore (terza media).
Se chiudo gli occhi, rivedo i miei due fratelli maggiori che studiano indossando cappotto, guanti e berretto con le reciare, le mani rivolte verso un fornello da cucina a tre fuochi sul quale posizionavano, capovolti, vasi di coccio in sostituzione dei mattoni refrattari. E rigusto il tepore del preo con lo scaldino riempito di braci, infilato sotto le coltri nella camera priva di riscaldamento: ai miei occhi di bambino sembrava una specie di arca biblica.
E risento il suono modulato, da argentino a grave, della pipi cacciata di notte sulle pareti smaltate del pitale. Il nostro gabinetto, 2 metri per 2, si trovava sul poggiolo della cucina. Frequentarlo in inverno era un supplizio di giorno, quando la ciambella gelata ti ustionava le natiche, e un cimento micidiale di notte. A un certo punto il signor Pinaroli, il muratore di Marzana incaricato di rifare il pavimento sconnesso, aveva promesso di trasformarlo perlomeno in un ambiente allegro, grazie a una soletta di cemento che in capo a poche settimane, a suo dire, avrebbe assunto una modernissima colorazione gialla.
Era appena uscita Yellow submarine dei Beatles. La fantasia prese a galoppare: un cesso giallo, avremo un cesso giallo! Trascorso un anno, dovemmo rassegnarci alle poche chiazze color paglierino che erano affiorate a stento sul quadrato grigio, come se qualcuno ci avesse vomitato sopra la Soluzione Schoum. Quello della poverta e un romanzo sempiterno, perche riguarda la vita.
Prima di Cazzullo, 30 anni fa ne fu un ispirato cantore Cesare Marchi in Quando eravamo povera gente. Gli indigenti restano tali anche dopo il riscatto sociale, come sosteneva Gabriel Garcia Marquez, che nel romanzo L’amore ai tempi del colera ci ha lasciato per testamento questa frase: «“Ricco no”, disse, “sono un povero con i soldi, che non e la stessa cosa”».
Fra i personaggi piu citati nel libro di Cazzullo, fin dall’esergo di pagina 3, vi e un povero che rimase tale nonostante l’enorme popolarita raggiunta. Si tratta dell’uomo che ha incarnato meglio di ogni altro l’Italia della Ricostruzione: Alcide De Gasperi. «La frugalita di De Gasperi e leggendaria, il suo disinteresse per il denaro assoluto», scrive il saggista.
«La domenica compra le paste per i familiari: non piu di una a testa, per la moglie Francesca, per le quattro figlie Maria Romana, che chiama “Mana”, Lucia, che si fara suora, Cecilia e Paola, e per la sorella Marcella che non ha piu nessuno e vive con lui. Lo stipendio lo porta direttamente alla moglie, che gli passa la paghetta per i giornali e i sigari. I suoi uffici al Viminale (Palazzo Chigi ospita il ministero degli Esteri) sono un porto di mare, sempre pieni di gente che viene a chiedere qualcosa.
C’e un prete di periferia che passa tutti i giorni; finalmente riesce a fermare De Gasperi e a chiedergli soldi per la sua comunita di orfani di guerra; lui gli risponde che non puo disporre del denaro pubblico, ma tira fuori dalla tasca l’assegno dello stipendio e glielo gira. Poi guarda la figlia: “E ora chi glielo dice alla mamma?”». Non dovete credere che Cazzullo si sia abbandonato all’agiografia.
Maria Romana De Gasperi mi racconto: «Quando, nella Roma liberata dal fascismo, cadde il primo governo presieduto da Ivanoe Bonomi, mio padre e Stefano Siglienti, che era il ministro delle Finanze, tornarono a casa a piedi perche pensavano che l’auto di servizio non gli fosse piu dovuta».
E Lorenzo Cappelli, deputato e senatore che fu per 55 anni sindaco di Sarsina, mi spiego che, alla morte dello statista trentino, tutte le segreterie provinciali della Dc dovettero fare una colletta per comprare alla moglie Francesca un alloggio, altrimenti sarebbe finita sulla strada con le figlie.
«Neanche quattro muri lascio alla sua famiglia. Invece i politici di oggi riscattano gli attici a prezzi di favore dagli enti pubblici», scuoteva la testa il parlamentare romagnolo. Al teatro Nuovo ho scoperto che Cazzullo non e soltanto l’eccellente giornalista e scrittore che riesce sempre a portarti sino alla fine dei suoi articoli e dei suoi libri con una prosa avvincente. E anche un attore consumato.
L’ho capito guardandolo mentre nel foyer rilasciava un’intervista a Telearena. Gliel’ho anche detto, alla fine delle riprese: mi ricordi Giovanni Spadolini, l’unico oratore che sapesse mettere le parole una in fila all’altra senza mai sbagliare o incespicare. Non solo per come lo dice, ma per quello che dice, l’autore di Giuro che non avro piu fame meriterebbe una trasmissione tv sulla Rai, o sulle reti Mediaset, o su La7.
Saprebbe ricordare agli italiani, soprattutto ai piu giovani, da dove viene il benessere in cui sguazzano annoiati e depressi. Forse riuscirebbe a mandarli finalmente a letto contenti. Invece, fateci caso, e l’unico giornalista a non aver mai ottenuto la conduzione di uno dei tanti talk show votati solo alla rissa e all’insulto. E temo che non l’avra mai. Nell’Italia dove Alcide De Gasperi fu per l’ultima volta presidente del Consiglio 65 anni fa, e il malessere degli elettori a procurare il consenso politico. Ha ragione Cazzullo: «Anche oggi l’Italia e un Paese da ricostruire».