Roberto Croci per “il Venerdì di Repubblica”
La prima volta che ho incontrato Stephen King ero a Wilmington, North Carolina, nell' ufficio di Dino de Laurentiis - dal 1985, e fino alla morte del produttore nel 2010, sono stato il suo traduttore per sceneggiature e set - che aveva deciso di adattare per il cinema il racconto Camion affidando a King anche la regia.
Nacque così Brivido (1986) che resta l' unica prova dello scrittore dietro alla macchina da presa. Già allora ero un fan dell' autore di Carrie, Shining, Misery, Christine e rimasi molto impressionato non solo dalla sua creatività malata, ma soprattutto dalla voglia di misurarsi continuamente con la scrittura.
Trentacinque anni dopo ho ritrovato le stesse qualità durante l' incontro su Zoom per la serie ad alto tasso di suspense La storia di Lisey (otto puntate in streaming a partire dal 4 giugno su Apple Tv+) scritta interamente da King e tratta dal suo omonimo romanzo del 2006, con protagonista Julianne Moore (che ne è anche produttrice insieme a J.J. Abrams) e Clive Owen. La regia è di Pablo Larraín.
È la storia di Lisey, moglie dello scrittore Scott Landon che, riordinando le cose dopo la sua morte, si trova a rivivere, non solo nella memoria, alcune tappe della vita matrimoniale.
Com' è nata l' idea della storia?
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«Anni fa ho avuto una brutta polmonite e ci ho quasi rimesso la pelle. Dopo tre settimane di ospedale, mia moglie Tabitha ha capito che sarei sopravvissuto e ha deciso di ripulire il mio studio. Quando sono tornato a casa mi ha detto: "Non entrarci, non ti piacerà ". Inutile dire che sono entrato immediatamente. Ero confuso, disorientato a causa dei farmaci, e quando ho visto la stanza ho pensato che dopo la mia morte sarebbe stata esattamente così. Un' esperienza molto inquietante».
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Perché? Come lo ha trovato?
«Non c' erano più mobili, tutto era stato impacchettato, i libri erano nelle scatole, i tappeti arrotolati, le librerie vuote. Era come... se fossi morto. Pensai subito: cosa succederebbe alla mia famiglia se morissi? Cosa farebbero?
Chi si occuperebbe dei miei affari, delle mie cose, di fare un inventario di tutto quello che ho lasciato? Da quell' esperienza è nato La storia di Lisey».
Lo considera un libro importante della sua produzione?
«È molto speciale, uno dei miei preferiti. Inizialmente è nata come una storia comica di un ragazzo che vuole diventare uno scrittore famoso. In realtà vale poco, è la moglie ad avere talento, anche se nessuno la considera importante ed è lui ad avere successo.
Poi è entrato in scena Dooley, un tipo instabile, ossessionato dallo scrittore, deciso a impossessarsi di tutti i suoi manoscritti. A quel punto il romanzo ha preso un' altra direzione, è diventato serio.
È una storia sull' amore, sul matrimonio e sull' impulso creativo».
Dai suoi lavori sono nati decine di film e serie tv. Ci sono storie impossibili da trasporre sullo schermo?
«No, credo che tutto possa essere adattato, anche se alcuni progetti, come La storia di Lisey, possono essere più complessi di altri. Non è stato facile per Pablo Larraín raccontare la storia in modo lineare, perché i ricordi non hanno mai un ordine cronologico.
Lisey deve ricostruire la propria vita attraverso la memoria e allo stesso tempo vuole proteggere l' eredità culturale di Scott. È un thriller romantico con elementi di fantasy che deve combinare la sensibilità di generi così differenti.
Per me era importante far capire al pubblico le relazioni tra i protagonisti, esplorare la profondità del loro rapporto, perché ogni coppia vive in un proprio microcosmo che si evolve costantemente».
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A proposito di coppia, ha discusso con sua moglie la stesura della storia?
«Mia moglie è la persona più intelligente che conosco. Mi ha detto: "So cosa vuoi, so che non posso fermarti, che devi seguire la tua ispirazione a tutti i costi. Ma - e con lei c' è spesso un "ma" di mezzo - cerca di lasciarmi fuori dalla storia il più possibile, inventati quello che vuoi, ma non descrivere troppo le cose personali, i particolari della nostra vita privata". E così ho fatto, cercando di soddisfare entrambi. Julianne e Clive sono Lisey e Scott, non certo Tabby e Steve».
La pandemia influenzerà la narrativa dell' orrore dei prossimi anni?
«Forse. La letteratura esiste proprio per dare un senso a eventi casuali e arbitrari, per dare un significato, una morale, che non sempre esiste nella quotidianità.
Il brutto di questo periodo è l' incertezza, siamo rimasti tutti isolati per molto tempo e non posso prevedere le conseguenze letterarie di tutto questo, ma mi interessa molto ciò che succederà in un prossimo futuro. Il mio lavoro è sempre basato su un' idea, una storia, quello che succede nel mondo politico e sociale fa parte di me e in qualche modo influenza quello che scrivo».
Pianifica le storie dei suoi libri?
«John Irving diceva che non poteva iniziare a scrivere un libro se non sapeva come andava a finire. Per me sarebbe impossibile, solo l' idea mi fa impazzire. Ho sempre un' idea di un eventuale finale ma fortunatamente, mi sorprendo spesso con altre alternative.
Se non so come finisce una storia, anche il lettore rimarrà sorpreso. Scrivere è un po' come sparare, hai un' idea della direzione dei proiettili, ma c' è sempre la possibilità di un imprevisto che può cambiarne la traiettoria».
Come sviluppa i personaggi, evitando di ripetersi?
«È sempre la storia a modellarli, è la vita, il passare del tempo che cambia il carattere delle persone. Creare nuovi personaggi è come incontrare nuovi amici, è tutta una sorpresa».
La domanda più assurda che le hanno fatto?
«Spesso mi chiedono qual è il segreto del mio successo. Domanda stupida, che non riesco a evitare. Ho successo perché fisicamente mi mantengo in forma e sono felicemente sposato da 50 anni. Mia moglie ha reso possibile la mia stabilità mentale e la possibilità di continuare a esprimere la mia creatività. Ma è vero anche il contrario: il piacere che deriva dallo scrivere ha reso più sana e più stabile la mia relazione familiare».
E qual è il segreto della sua scrittura prolifica?
«Semplice. Scrivere una parola alla volta. Non importa se scrivi una barzelletta o Il Signore degli Anelli. Il processo è sempre lo stesso, One Word At a Time».
Cosa l' aspetta dopo La storia di Lisey?
«Un' altra collaborazione con J.J. Abrams, con cui ho una relazione creativa dai tempi di Lost, uno dei miei show preferiti. Vogliamo creare una serie antologica intitolata Tiny Horrors: entrambi siamo fan del genere horror, soprattutto quello del filone demoniaco e razzista creato da Jordan Peele con Scappa. Get Out. Ci sono tre tipi di horror: quello splatter e disgustoso delle teste tagliate, quello soprannaturale degli zombie e dei ragni giganti e quello del terrore puro, sospeso tra finzione e realtà».
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