Stephen Shore per “CNN”
Il fotografo americano Stephen Shore aveva solo 17 anni quando fu invitato alla Factory di Andy Warhol per fare un servizio. Finì che ci rimase per due anni, dal 1965 al 1967, esperienza ora raccontata nel suo libro “Factory: Andy Warhol”, edizioni Phaidon.
«Andy lavorava tutto il tempo, costantemente. Non aspettava di essere colpito dall’ispirazione. Provava, sperimentava, scartava ciò che non funzionava. La sua arte è ricerca, applicazione di un metodo. Qualcuno, tipo Gerard Malanga, lo aiutava e si impegnava personalmente nei suoi progetti, altri semplicemente andavano e venivano. Mi facevano ottima o pessima impressione queste persone che si sedevano o si sdraiavano sul divano per fare nulla, in attesa che arrivasse la sera e l’invito a qualche festa.
Io scattavo foto e talvolta Andy era scocciato dalla presenza di questi che gli giravano attorno mentre lavorava. Ogni tanto sull’ascensore compariva il cartello: “Se non avete qualcosa da fare qui, siete pregati di non venire”. Ma Andy non avrebbe mai costretto nessuno a seguire la regola.
Credo che la gente intorno in realtà gli servisse. La manteneva in attività, la coinvolgeva chiedendo “Che pensi di questo?”, “Che colore dovrei usare secondo te?”. Tirava tutti in mezzo al suo lavoro. Lì vidi Lou Reed, Nico e Velvet Underground, Marcel Duchamp, Yoko Ono, tanto per citare qualcuno.
yoko ono e marcel duchamp alla factory
Io e Andy parlavamo parecchio. Era un tipo aperto e spontaneo, ma diceva cose che non avrebbe detto in una situazione pubblica. Ad esempio mi chiese come era andato a finire il film “Priscilla Lane” e ammise che aveva pianto così tanto da crollare nel sonno e che sua madre gli spense la tv.
la factory fra muse e nullafacenti
Lo vidi prendere decisioni estetiche e questo influì molto il mio lavoro. Risvegliò il mio senso estetico, aveva a che fare più con la cornice che con l’opera al suo interno. Ho imparato tutto osservandolo, per osmosi.
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