Marco Giusti per Dagospia
“Ma che vado al cinema per vede’ morì i bambini?!” si chiede una madre di fronte a un finto film neorealista dove un soldato americano non riesce a salvare la madre ebrea che si sacrifica per sua figlia, ma salva la bambina e la accompagna in un bianco e nero impegnativo in fondo a Trinità dei Monti per un finale tragico ma rassicurante.
E’ l’inizio, un film nel film di un film che rimarrà volutamente misterioso, “Finalmente l’alba”, complessa, originale, opera maggiore di Saverio Costanzo, secondo film italiano in concorso, dedicato al padre da poco scomparso Maurizio, maestro del genere tutto italiano della commedia/talkshow, dove i personaggi sembrano tutti entrare o uscire da film nel film che fanno i conti con la realtà e la sua rappresentazione cinematografica in un gioco di incastri infinito. Un film, insomma, che più che fare i conti con il Neorealismo (chi può davvero fare i conti col Neorealismo? Solo Rossellini, Amidei e Fellini potevano provarci…) costruisce un percorso assolutamente innovativo dove i personaggi si muovono tra realtà e cinema come se facessero parte dello stesso grande immaginario collettivo.
Costanzo, assecondando un’idea davvero bigger than life ma a suo modo straordinaria, unisce nello stesso tempo, pur se con dieci anni di distacco, Neorealismo rosselliniano e kolossal alla Cleopatra, Teatro 5 di Cinecittà e il caso Wilma Montesi. Come se facessero parte di un unico disegno, almeno narrativo. E ha un’intuizione geniale, che però non sviluppa fino in fondo, adattare il suo modello di cinema realistico già provato in “L’amica geniale” alla Roma di “Bellissima” e dei teatri di posa dei sandaloni dove nessuno parla inglese e tutto rimane non-capito.
Ma non vuole, almeno credo, né tentare qualcosa di storico sul cinema italiano o sulla realtà del dopoguerra, segnata appunto dalla ragazza morta nel party della villa a Capocotta. Vuole invece mostrarci quanto cinema e realtà rappresentata facciano parte di un unico grande gioco delle parti dove a scegliere le storie da seguire e le parti da recitare è il caso più che un regista o un soggettista. Al punto che la ragazza da seguire fra le due sorelle protagoniste delle prime scene del film, non è quella più florida, che pensavamo da subito che sarebbe stata presa nel casting degli americani sbarcati a Cinecittà, ma quella più minuta, Mimosa, interpretata da Rebecca Antonaci, che ha incrociato per un attimo lo sguardo della star americana, la Josephine di Lily James, più Belinda Lee che Elizabeth Taylor.
In una serie di mosse, sbagliate, imprevedibili o solo maldestre, la nostra protagonista, dopo l’esordio sul set di un peplum incredibilmente violento, accompagnata da Josephine, dal suo partner cinematografico Sean Lockwood, cioè Joe Keery, dall’intellettuale americano a Roma Willem Dafoe, viene rivestita dalla diva e portata in giro per la notte romana. Il ristorante, le rovine dell’Appia come in “Le notti di Cabiria”, poi la festa a casa Montagna, dove entra come nella storia e nei panni della ragazza morta, Wilma Montesi. Senza pensare alla grazia innestata da Pasolini nel mondo felliniano che tutto può salvare.
Ma chi sta dentro il film e chi fuori, chi recita e chi esiste? Costanzo ci riempie di false citazioni, non esiste nessun film italiano nel dopoguerra che parli di bambini ebrei (seee…) né un peplum con i corvi che mangiano gli occhi ai prigionieri, il caso Montesi e la lavorazione di Cleopatra non coincidono affatto come tempi, ma riesce a far funzionare il suo film al meglio sulla paura della notte romana, sul perdersi nei labirinti dell’Appia, sul ruggito del leone, anzi della leonessa pronta a sbranarti come ai tempi dei peplum.
Sapete quanti domatori finirono dilaniati nelle scene coi leoni? Alla fine è tutto cinema, immaginazione, trucco, parrucche, Ma fortunatamente non c’è nulla di felliniano. E per questo non c’è mai commedia. Semmai il desiderio di giocarsi le carte del cinema tra Neorealismo e Hollywood, come nella notte infinita della “Dolce vita”. Un film, quello di Costanzo, molto più interessante di quel che potrebbe apparire in un primo tempo, che avrebbe bisogno di fermarsi un attimo in più nella nostra testa.