Marco Giusti per Dagospia
"Call me Jackie". Eccoci pronti per la Jacqueline Kennedy di Natalie Portman diretta dal cileno Pablo Larrain, dopo aver appena portato a Cannes il biopic su Neruda e prodotto da Darren Aranofsky, che l'aveva pensato per l'ex moglie Rachel Weisz.
Magari potrebbe essere piu' ricco, piu' gaio, piu' glam questo Jackie di Larrain, chissa' cosa ne avrebbe fatto un Sodenbergh, ma oltre a offrire a Natalie Portman un gran ruolo per il suo ritorno in serie A, e' un'accettabile versione dei giorni del dopo-Dallas, molto cosciente nel mostrarsi come proto-House of Cards sia per il rapporto della coppia JFK Jackie sia per la "costruzione" stessa della Casa Bianca come luogo della politica.
La Jackie della Portman non si limita alla sfilata dei tailleur, benissimo portati pero', a cominciare da quello rosa macchiato di sangue di Dallas, ma discute parecchio col suo architetto, Richard Grant di scorsesiana e vanziniana memoria, dell'arredamento di ogni stanza.
E grande e' il momento, ultrafetish, di Jackie che tocca il tappeto rosso dello Studio Ovale, arrivato a presidente ormai defunto. Come mette in piedi il nuovo arredamento della Casa Bianca, Jackie, mischiando intelligenza marketing e vanita', mette in scena anche il funerale strepitoso di JFK che obblighera' perfino De Gaulle a seguire il feretro a piedi (non sara' un caso che il film e' girato in Francia).
Costruito seguendo l'intervista che le fa un giornalista, Billy Crudup, nel Massachuttes a pochissima distanza da Dallas,mischiando il dialogo con vecchio prete e alla costruzione dell'elaborato funerale, il film offre un ritratto abbastanza preciso di Jackie, della sua vanita' e della sua precisa idea di voler lasciare un segno nella storia del paese magari anche con la scelta dei mobili, mentre la moglie di Johnson pensa solo alla carta da parati.
Piacera' parecchio alle signore, ovviamente, e ai feticisti pazzi di Jackie, ma non e' mai un film banale e potrebbe portare un premio alla sua protagonista.