Marco Giusti per Dagospia
Filmone da Oscar, totalmente costruito per la performance della sua protagonista, Cate Blanchett, nei panni di un celebre direttore d’orchestra internazionale che vive a Berlino, “Tar”, scritto e diretto da Todd Field, attore e regista di due opere molto quotate, “In the Bedroom” e “Little Cbildren”, che da 16 anni non riusciva a chiudere un film, malgrado avesse costruito grandi progetti legati a romanzi celebri (da “Puity” di Franzen e “meridiano di sangue” di McCarthy), parte come un grande ritratto sul mondo della musica classica e sul rapporto tra musicisti di oggi e classici del passato per poi piano piano scivolare su un terreno più accidentato e non certo semplice.
Quello dell’abuso del potere che esercita la protagonista, lesbica e predatrice, sulle sue giovani allieve e collaboratrici. Un abuso e un comportamento sprezzante verso chi le sta vicino, la compagna Sharon di Nina Hoss, l’assistente Francesca di Noèmie Mérlant, che la faranno cadere dal podio che con fatica aveva scalato in un mondo esclusivamente maschile.
Film inconcepibile fino a una decina d’anni fa, anche perché il mondo della musica classica era visto come biopic agiografico o scontro tra professionisti sgomitanti, affronta invece temi che devono invece essere attuali tra i giovani compositori, anche se ci fa un po’ ridere il ragazzo della Juillard che giustifica con l’essere non binario il suo odio per Bach, per il suo maschilismo e le sue rapacità sessuali. E sarà proprio il ragazzo a riconoscere la stessa rapacità nel celebre maestro Tar urlandone che è “uno fottuta stronza”.
Ma è al suo ritorno a Berlino, col massacro continua della sua compagna e della sua assistente, e le troppe attenzioni riservate a una giovane violoncellista russa, Sophie Kauer, mentre si scopre che un’altra sua giovane allieva abbandonata si è tolta la vita, che le cose precipitano. Cate Blanchett se la gioca benissimo quando deve fare la star fredda e intelligente, pronta a rispondere alle domande del “NewYorker” e a trattare coi colleghi maschi, Mark Strong e Julian Glover, che sembra dominare totalmente.
Le crediamo meno quando la vediamo dirigere in maniera un po’ esagitata Mahler o quando cerca di comporre al piano qualcosa di geniale. Alla fine gli attori che interpretano i musicisti esagerano sempre, sono ruoli-trappola mortali, vedi anche il Dirk Bogarde di “Morte a Venezia”, giustamente citato nel film (“Visconti!”).
Ma è più che possibile che possa vincere l’Oscar o la Coppa Volpi. Il film, esattamente come l’interpretazione della Blanchett, ha il suo fascino, ma alla fine si trascina un po’ troppo in un moralismo revisionista. Certo il dibattito dei giovani musicisti americani sul fatto se sia lecito suonare ancora oggi composizioni di un gruppo di tedeschi, etero, bianchi e maschilisti non l’aveva mai sentito.
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