Giampiero Mughini per Dagospia
Caro Dago, e a proposito di questo recente calendario dell'Esercito Italiano per come lo hanno voluto alcuni degli uomini attualmente al governo in Italia, ho appena letto l'articolo che Marco Revelli ha firmato sulla Stampa, uno dei più bei giornali italiani.
Revelli parte dalla dizione contenuta in quel calendario che recita così: "Per l'Italia sempre ... prima e dopo l'8 settembre 1943". Che tradotto in italiano significa: "Onore a chi indossò la divisa dell'esercito italiano e combatté con quella divisa tanto prima dell'8 settembre che dopo". Onore tanto a chi combatté nelle trincee della Prima guerra mondiale quanto ai "ragazzi di Salò".
Revelli scrive che questa dizione stesse particolarmente a cuore a Isabella Rauti, la figlia di Pino Rauti, una famiglia romana che conosco bene. Revelli ha ottimi titoli per affrontare l'argomento, dato che è il figlio di Nuto Revelli, l'autore di bellissimi libri sulla sua esperienza di soldato italiano che venne chiamato a combattere in Urss, visse in prima persona la tragedia del contingente italiano e che tornato in Italia ("Insignito della medaglia d'argento al valore") passò dalla parte dei partigiani, di chi combatté "i ragazzi di Salò". Figuriamoci se a Nuto Revelli non porto lo stesso rispetto e ammirazione che nutre suo figlio.
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Detto questo il problema dell'atteggiamento morale da avere nei confronti degli italiani che indossarono la divisa dell'esercito di Salò resta molto complesso, impossibile da risolvere con un colpo d'ascia intellettuale. Con un colpo d'ascia che li qualifichi come "indegni" di rispetto o giù di lì.
E' molto semplice. Ne ho conosciuti alcuni di quei "ragazzi di Salò", ma in particolare due. Carlo Mazzantini e Giano Accame, l'uno e l'altro miei carissimi amici. Su quel mondo e su quella sua esperienza Carlo ha scritto un romanzo bellissimo, "A cercare la bella morte", e non v'è da aggiungere altro. Organizzai a casa mia una cena in cui si trovarono di fronte lui e Rosario Bentivegna, il partigiano che accese la miccia di via Rasella.
Al funerale di Carlo, Rosario c'era e il suo sguardo attristato dal dolore lo ricordo come fosse ieri. Quanto a Giano, è stato per me una miniera nel farmi comprendere e tastare meglio il mondo politico da cui proveniva, e comunque in Israele Giano ha oggi un suo posto nel parco dei "Giusti".
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Per l'uno e per l'altro la dizione contenuta nel calendario da cui abbiamo preso le mosse funziona benissimo. Sono stati due italiani che non hanno demeritato in fatto di onore e lealtà alla divisa che indossavano.
Solo che c'è un terzo caso, di un ulteriore soldato anzi due che dopo l'8 settembre continuarono a essere fascisti. Il primo è il Giuseppe Bedeschi che andò anche lui a combattere in Urss, che anche lui fece i 700 chilometri della sanguinosa ritirata sulle nevi e che più tardi scriverà il "Centomila gavette di ghiaccio" che, dopo essere stato rifiutato da 16 editori, diverrà il libro/monumento di quell'atroce esperienza. Ebbene nel secondo dopoguerra Bedeschi era rimasto fascista.
Non fosse che ancor più clamoroso è il caso del personaggio maggiore del romanzo di Bedeschi. Quello di un ufficiale italiano che nel libro ha nome Ugo Reitani, ed è un personaggio di cui Bedeschi non lesina nell'esaltarne il valore militare ed umano. Ebbene, nato a Catania, il suo vero nome era Ugo D'Amico, secondo dei quattro figli di uno stimatissimo professore di matematica che insegnava al Liceo Spedalieri di Catania. Ebbene il Reitani in carne e ossa, l'uomo così impareggiabilmente narrato da Bedeschi, dopo l'8 settembre decise di continuare a combattere dalla parte dei tedeschi al punto da tornare in Urss e morire il 28 dicembre 1943 combattendo al loro fianco.
Diceva che lo aveva fatto pur di non combattere contro altri italiani (antifascisti). O forse c'era anche un'altra ragione. Forse con quella scelta voleva onorare la memoria di un suo fratello minore, il capitano pilota di caccia Italo Benedetto, il quale s'era guadagnato un subisso di medaglie al valore militare fino alla medaglia d'oro alla memoria per essere stato abbattuto a 26 anni sul cielo di Malta durante gli strenui duelli aerei che precedettero lo sbarco alleato in Sicilia.
Tornassi domai a Catania, la città dove sono nato, la prima cosa che farei è cercare quel c'è oggi della famiglia D'Amico e portar loro i segni della mia commozione umana, da italiano a italiani.
GIAMPIERO MUGHINI
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