Luca Beatrice per “il Giornale”
GUY DEBORD - LA SOCIETA DELLO SPETTACOLO
I neo cinquantenni del 2017 possono festeggiare il loro mezzo secolo insieme ad altri importanti anniversari. Nel 1967 debuttano i Doors mentre a San Francisco va in scena la Summer of Love, il chirurgo sudafricano Christiaan Barnard esegue il primo trapianto di cuore e in Italia viene fondata l'Arte Povera. Esce il romanzo capolavoro di García Márquez Cent' anni di solitudine e, tra i film, Il buono, il brutto, il cattivo di Sergio Leone e Bella di giorno di Luis Buñuel.
Lo stesso tempo è passato da quando Guy Debord ha pubblicato il testo più famoso, La società dello spettacolo, edito in Italia da Baldini & Castoldi. Un longseller tra sociologia, filosofia, estetica, critica dei massmedia, un libro che molti citano e pochi hanno letto davvero. Complesso e articolato snodo di un pensatore marxista ma eretico, visionario e autodistruttivo, cui va attribuito l'indubbio merito di aver immaginato, da intellettuale rabdomantico qual era, il paesaggio culturale che sarebbe venuto dopo di lui.
Duecentoventuno tesi enumerate e suddivise in 9 capitoli formano la struttura di un pamphlet non facilmente decodificabile, ma oltre l'esegesi teorica resta impressa, fino ai nostri tempi, la formula contenuta nel titolo: da Debord a oggi, dal 1967 al 2017, noi viviamo immersi nella società dello spettacolo che, pur essendosi adattata alle rapide mutazioni genetiche dei new media, si manifesta come l'ultima rivoluzione culturale del secondo 900.
Logico che di Debord si parli soprattutto per le influenze ancora pulsanti, mirabilmente sottolineate dal lungo articolo di Alberto Campo pubblicato sul numero di marzo del Mucchio. Dalla storia della musica, di cui è specialista, il critico torinese ha spaziato tra arte e politica, filosofia e azione, evidenziando l'ambiguità di una figura eterodossa, solo genericamente ascrivibile alla cultura di sinistra, che in realtà appare più credibile come un pensatore anarchico di destra, in un periodo in cui tali categorie avevano ancora un senso.
GUY DEBORD CON LA SORELLASTRA MICHELE LABASTE
Nato a Parigi nel 1931, Debord fin da ragazzo è una spugna che assorbe da tutte le direzioni, a cominciare dal Surrealismo e dal suo amato conte Isidore Ducasse de Lautréamont, misterioso autore dei Canti di Maldoror. Lui stesso non sa come definirsi, la migliore formula è quella usata da Pietro Piemontese nel saggio biografico Dottore in niente, pubblicato nel 2001 da Marsilio.
Nel '52 Debord è tra i fondatori dell'Internazionale Lettrista, un ensemble mobile di fancazzisti pseudorivoluzionari che non hanno lasciato tracce significative in termini di opere, pur dando la stura a nuovi fenomeni avanguardisti del tutto disarcionati dall'oggetto. Provocatore, giocatore d' azzardo, impossibile da addomesticare, Debord incarna la figura del flâneur che poco ha a che fare con il rivoluzionario di professione del Maggio francese, di cui gli è stata attribuita paternità teorica.
Quello slogan scritto sui muri, «il est interdit d' interdire» (vietato vietare) suona piuttosto come il ribellismo individuale e non l'ansia di conquiste sindacali sessantottine. Dionisiaco e dannunziano, gli piace molto di più il '77, quando lo si vede spesso in Italia, da dove fu peraltro espulso. Prima di morire suicida nel 1994 fa in tempo a girare un film in cui compare la frase palindroma latina tradotta all'incirca «giriamo in tondo nella notte e veniamo consumati dal fuoco» e avvicinarsi al pensiero di Nietzsche.
Nel frattempo è esploso il punk (altro anniversario di oggi, il quarantennale) che molto deve alle intuizioni di Debord, come già aveva sottolineato Greil Marcus nel memorabile saggio Tracce di rossetto (Odoya in italiano).
In generale tutto l'ambito situazionista risulta fondamentale nello sviluppo delle sottoculture, sottolinea Campo, dalle Zone Temporaneamente Autonome di Hakim Bey alle esperienze dei rave; dal Culture Jamming, metodo di sabotaggio intellettuale degli anni '80 al movimento Occupy Wall Street; dai Flash Mob alle azioni artistiche di Banksy. Funziona meglio dove il pretesto è velleitario e anarcoide, meno nella politica.
Debord preconizza che, alla fine del 900, l'industria pesante, di stampo fordista, sarebbe stata completamente soppiantata da una nuova forma ben più leggera, la società dello spettacolo appunto. Intuizione che ha funzionato persino meglio nel mainstream che nell'alternative: dallo strapotere della televisione a partire dagli anni '80, utilizzata come strumento di consenso politico alle attuali forme social dove si insegue la presunta democrazia partecipata della rete, vince l'effetto spettacolo.
Prima Silvio Berlusconi, poi Beppe Grillo, infine Jorge Bergoglio, che in questi stessi giorni trionfa sulla copertina di Rolling Stone come «Papa Pop», sembrano davvero i discepoli ideali di Debord: spettacolizzare tutto equivale a pretendere il massimo della libertà, senza condizionamenti, senza nessun freno a mano tirato. Eppure il teorico francese non ha mancato di sottolineare che gli spettatori (cioè noi) «non trovano quello che desiderano ma desiderano quello che trovano».