Assia Neumann Dayan per "la Stampa"
Un paio di giorni fa sul Wall Street Journal la giornalista Julie Jargon ha raccontato la storia di Griffin Henry, giocatore professionista di baseball, e di come sia diventato anoressico. La sua storia è paradigmatica, perché chiunque abbia una connessione internet e un account Instagram ci si può specchiare a figura intera. Henry è uno sportivo, quindi è legittimo che facendo del suo corpo la sua fonte di guadagno abbia pensato che perdere peso fosse una buona idea.
Così come le modelle continueranno a fare le modelle e a mangiare insalata senza dover rendere conto a noi di quanto e cosa mangiano, così gli sportivi devono entrare in parametri molto precisi, e non per questo lanciano messaggi sbagliati, o devono per forza ingrassare essere come noi. Gli allenatori avevano detto a Henry che avrebbe dovuto correre più veloce, e quindi decise di perdere peso. Purtroppo per lui gli spunti su come dimagrire li ha presi da Instagram.
Ci sono milioni di pagine dove troviamo esecuzioni di circuiti ad alta intensità di quindici minuti, menù completi da mille calorie con grammature precisissime, ricette di frullati chetogenici che sembrano fatti di panna, proteine in polvere al gusto burro di arachidi scontatissime.
Credo ci sia almeno un coach online per abitante della popolazione terrestre, complice anche la chiusura delle palestre con la pandemia. Tutto è pubblico, tutto è online, tutto è in vendita, compresa la nostra idea di corpo che vorremmo avere. I disturbi alimentari maschili esistono e sono in aumento, ma rimangono nascosti fino a quando il quadro clinico non diventa grave.
Si è sempre parlato di DCA come di patologie prettamente femminili, solo negli ultimi anni, anche sui social, vengono raccontate le storie di disturbi alimentari vissute da ragazzi. Ci sono pagine Instagram molto seguite, con infografiche e frasi motivazionali, che da un lato propongono ricette di ingannevoli budini di albumi aromatizzati al caramello (caramello fatto con eritritolo e acqua, a zero calorie), dall'altro dicono «noi non siamo un numero», che è il mantra di tutte queste pagine.
Aggiungo che sono piene di sponsor, quindi monetizzano una filosofia alimentare che filosofia non è, ma è solo rendicontazione personale. È come uno schema Ponzi, ma fatto con la piramide di paure dello spettatore. L'anoressia è una patologia psichiatrica, e come tale va trattata. Io seguo moltissime di queste pagine, e seguo anche moltissimi «profili recovery», dove ragazze e ragazzi raccontano le loro giornate alimentari dopo un dca.
Con la pandemia la situazione è peggiorata: la chiusura delle palestre, la difficoltà di non mangiare per noia o disperazione quando eravamo in lockdown, il pensiero fisso di dover fare 10.000 passi al giorno, magari in un bilocale con altre persone, ha dilatato e moltiplicato i disturbi che riguardano il cibo.
Spesso le ragazze e i ragazzi dei profili recovery spariscono da un giorno all'altro, passano settimane, poi tornano dicendo che avevano avuto una ricaduta e che non volevano influenzare nessuno. Il «non voler influenzare» è la frase che leggo di più dopo «non siamo il numero sulla bilancia». Dietro ci sono strategie di compensazione del cibo, di restrizione dopo aver mangiato qualche grammo in più di riso, di copertura dello sgarro settimanale.
La verità è che noi crediamo a tutto ciò che vediamo, perché ne abbiamo bisogno. Ad esempio, io non credo che le persone magre che mi parlano di mangiare pizza tutti i giorni lo facciano davvero, credo che i piatti di carbonara fotografati dalle modelle siano solo oggetti di scena. Io lo so che mangiano petto di pollo e albumi, ma capisco che a 16 anni uno ci creda. È molto pericoloso credere a tutto quello che vediamo, perché poi si finisce col pensare che dire «vorrei perdere qualche chilo» sia un discorso che inneggia ai disturbi alimentari.
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