Maria Rosa Tomasello per “la Stampa”
Centinaia di milioni di mascherine e di guanti monouso, milioni di camici e di cuffie, di tute e calzari utilizzati da medici e infermieri negli ospedali: sono la barriera tra noi e il contagio che dopo essere stati usati si trasformano in una montagna di rifiuti. In un mondo che cercava soluzioni alla drammatica emergenza rappresentata dalla plastica, l' epidemia da coronavirus ha aperto il capitolo dello smaltimento dei dispositivi di protezione, appesantendo la raccolta indifferenziata con il rischio di un aumento dei costi di gestione, e ha generato una forma inquinamento nuova che è già sotto i nostri occhi: uccelli impigliati nelle mascherine disseminate in strade, giardini, lungo i fiumi; mascherine e guanti che galleggiano nei porti, o depositati dalle maree sulle spiagge, che minacciano pesci, mammiferi e tartarughe già assediati dagli otto milioni di tonnellate di plastica che ogni anno finiscono in mare.
Il Wwf ha stimato che se anche solo l' 11% delle mascherine non fosse smaltito correttamente, ogni mese 10 milioni di pezzi verrebbero dispersi nell' ambiente. Si muovono i Comuni, come quello di Milano, con la campagna «Non gettarli a terra».
Le associazioni come Legambiente, che a Napoli si allea con Federfarma per sensibilizzare i cittadini.
I numeri forniti dalla Protezione civile sui materiali distribuiti dal primo marzo - 220 milioni di pezzi, 188 milioni, rappresentati da mascherine - sono solo parte della contabilità. Regioni, ospedali e strutture sanitarie si sono approvvigionate autonomamente, generando numeri difficili da censire. A questi vanno aggiunti i consumi di cittadini e imprese, che aumenteranno a dismisura con la riapertura di uffici, negozi, bar e ristoranti.
L' Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale ha stimato che solo le mascherine e i guanti usati nella quotidianità «peseranno» da qui a fine anno tra 160mila e 440 mila tonnellate (su 30 milioni di tonnellate di rifiuti complessivi) ipotizzando un consumo giornaliero di 35-40 milioni di mascherine con un peso medio di 11 grammi e di 70-80 milioni di guanti, con una produzione media compresa tra 400 e 1.100 tonnellate ogni giorno.
Dove finiranno? Gi scarti del settore sanitario seguiranno come sempre la strada riservata ai rifiuti pericolosi. Ogni anno arrivano negli inceneritori o vengono avviate a sterilizzazione circa 145 mila tonnellate di rifiuti potenzialmente infetti: tra marzo e aprile, questo flusso ha subito un aumento di circa il 20%, ma poiché la capacità di trattamento è di 342 mila tonnellate, poche migliaia di tonnellate sono state metabolizzate senza problemi.
E il resto? I dispositivi usati per andare a fare la spesa o a passeggiare vanno buttati nel contenitore dell' indifferenziata. Quelli utilizzati nei luoghi di lavoro (un miliardo di mascherine al mese secondo il Politecnico di Torino, oltre a 500 milioni di guanti) sono rifiuti speciali, vanno smaltiti sul posto e possono seguire due strade in relazione alle decisioni assunte in ciascun territorio: se assimilati ai rifiuti urbani confluiscono nella raccolta urbana indifferenziata, e in questo caso, avverte Massimo Bratti, direttore generale di Ispra, «i maggiori costi saranno a carico della tassa o tariffa, comunque a carico del cittadino», altrimenti vengono smaltiti dall' azienda nell' ambito di un circuito privato. «Regioni e Comuni hanno fatto scelte diverse, quindi in alcuni casi, per esempio, un dispositivo prodotto da una persona in quarantena è un rifiuto pericoloso, mentre altrove va nell' indifferenziata. Il quadro è confuso, non è stato facile orientarsi» commenta Marcello Rosetti, presidente di Confindustria Cisambiente.
«Il sistema ha retto bene» sottolinea, ma «la gestione in sicurezza dei nuovi rifiuti avrà un impatto sui i cittadini, i servizi costeranno di più, lo smaltimento dell' indifferenziata ha un prezzo: poi dipenderà dal pubblico se farsene carico nella fiscalità generale o intervenire sulle imposte locali, anche se naturalmente c' è impegno da parte di tutti a collaborare». E in un Paese che rappresenta una eccellenza nel settore del riciclo, sottolinea, si potrebbe anche «pensare a un percorso per recuperare qualche materia da questi rifiuti».
«Non esistono numeri certi - sottolinea Bratti - noi abbiamo fatto una stima per capire se gli impianti che abbiamo in Italia sono in grado di gestire questi rifiuti da qui a fine anno, e poiché in marzo e aprile c' è stato un calo del 10 per cento della produzione di rifiuti urbani, circa 500 mila tonnellate in meno, questo calo potrebbe essere compensato dai nuovi rifiuti. Quindi la criticità da qui a fine anno non è quella della raccolta: c' è più preoccupazione per l' abbandono di questo materiale in giro.
Per questo è opportuno prevedere una rete di raccolta che sia la più vasta possibile, o il rischio è di ritrovarceli dappertutto. Io credo sia necessario un confronto continuo coi gestori per monitorare la situazione». Anche per vigilare, avverte, su un fenomeno emergente: l' aumento dell' utilizzo di oggetti monouso in bar e ristoranti per consumo e asporto, il nuovo tsunami di plastica in arrivo.