Andrea Galli per www.corriere.it
In un quadro mutevole, dunque ancor più minaccioso, il vertice in Prefettura sull’ordine pubblico ha cristallizzato il seguente scenario. Lo ha fatto dopo le violenze di lunedì e prima dell’annunciata manifestazione di giovedì, per la quale il questore Sergio Bracco ha diffidato i promotori ufficiali (il movimento imprese italiane) dall’organizzare l’evento stesso, alle 17 in via Clerici, a Bresso. C’è un punto di partenza obbligatorio, analizzando sempre l’ultima guerriglia e l’attuale periodo storico. La manifestazione era stata di fatto «promossa» da commercianti, baristi e camerieri, i quali poi non sono riusciti a gestire la situazione.
La dissociazione della categoria, si sente ripetere dagli operatori della sicurezza, è il minimo che si potesse fare. Offensivo pensare che basti. E non venga accolto come giustificazione un primo dato oggettivo: i promotori non hanno firmato nessun atto distruttivo. L’incapacità di governare la piazza è un secondo dato oggettivo (e loro erano pur sempre lì, a riempire lo spazio e impegnare agenti). Ma allora chi dirigeva? Non i neofascisti associati agli ultrà. I primi, in particolare, si sono isolati già nelle iniziali fasi. C’erano anche militanti anarchici, «riconducibili all’area di via Gola», ugualmente, in linea generale, «distanti».
MILANO - BABY GANG DEI RAGAZZINI EGIZIANI
Questa frammentazione dello schieramento (proprio mai s’erano visti movimenti antitetici, abituati a fronteggiarsi, stare invece a fianco) risponde a trame nazionali, come spiega un investigatore di via Moscova. La contemporaneità dei disordini in più città, che ha risposto a un coordinamento, ha generato un’estrema difficoltà nel modulare in anticipo gli spostamenti dei reparti mobili come ausilio mirato in una zona d’Italia anziché un’altra. La medesima frammentazione introduce un’ulteriore criticità: la mancanza di un interlocutore, o più interlocutori, con i quali dialogare nella contrapposizione delle parti, esasperata nell’offensiva contro carabinieri e poliziotti, i primi obiettivi dei violenti.
Ed eccoci arrivati a loro. In Questura invitano a osservare l’esponenziale crescita dell’aggressività, che spesso sfocia in episodi di baby gang, da parte della fascia dei 14-16 anni, successiva al lockdown. Giovani rabbiosi, anzi per esplicitare meglio «incazzati contro il mondo», che non hanno nel mirino le recenti misure del Governo.
Forse le ignorano pure. Questa rabbia, in relazione alla provenienza geografica, a cominciare dalla periferia settentrionale (i gruppi più numerosi sono partiti dal quadrante viale Monza-via Padova-Lambrate) richiama il disagio delle seconde e terze generazioni di figli di migranti. Tema ampio, enorme, una tema con puntualità alla ribalta di Milano, e drammaticamente soggetto a manipolazioni dei politici, un tema che di per sé fa capire come sia rischioso demandare tutto alle forze dell’ordine evitando un’analisi su cosa è stato fatto nei decenni dai governanti locali.
MILANO - BABY GANG DEI RAGAZZINI EGIZIANI
Non si deve poi dimenticare l’«apporto» numerico dall’hinterland, in una composizione urbanistica e sociale, dice un investigatore, che non limita il malessere agli estremi lembi milanesi, ma interseca l’intera città metropolitana. Sono ragazzi che (forse) non hanno un preciso spazio fisico, dove per esempio provare a cogliere il fermento come potevano essere, cinquant’anni fa, agli esordi del terrorismo, la Statale e la Siemens. L’incontro è su Internet; sono le chat a lanciare la chiamata a raccolta, convocare in tempo zero decine di giovani, comunicare ritrovi, fomentare, suggerire piani. Una «improvvisazione strutturata», che spaventa i non addetti ai lavori; in queste ore istituzioni società di vigilanza hanno chiesto con insistenza: proteggeteci, interpretando carabinieri e poliziotti come un servizio ad personam.
Ma non esiste un’agenda del futuro. E non si può essere ovunque a difendere ogni Palazzo, ogni strada commerciale. Proprio perché i ragazzi sono imprevedibili, se non forse con un’insistita attività di prevenzione capace di cogliere i famosi segnali sul territorio che interrogano per prime famiglie e scuola. A settembre, a Milano il capo della polizia Franco Gabrielli aveva presieduto una riunione «interna». Aveva illustrato le criticità di mesi complicati e s’era richiamato allo sforzo instancabile di «leggere» la città e la provincia, di interpretarla ancor prima di «starci» fisicamente, di adattare le azioni a seconda dell’interlocutore, della sua provenienza, delle sue istanze, di cosa si porta dietro e dentro.