“Italo strafottente? Ma chi lo dice? il ragazzo non aveva più la patente, e nemmeno la moto. Aveva solo una bicicletta ed è stato freddato proprio in bici. Scuse? Ma che scuse. Abbiamo mandato un messaggio di cordoglio alla famiglia.
Di cosa si doveva scusare? Abbiamo espresso il nostro sentimento di cordoglio. Si doveva scusare di essere nato? Ci sono tanti incidenti, ce ne sono uno dopo l’altro…E’ stata una tragedia e partecipiamo al dolore. Punto. Abbiamo fatto un comunicato.
Più di questo cosa dovevamo fare?”. Queste le parole di Alessandro D’Elisa, lo zio di Italo, il ragazzo ucciso a Vasto da Fabio Di Lello, a La Zanzara su Radio 24. D’Elisa, che è consigliere comunale sempre a Vasto, dice che Italo non doveva chiedere perdono a nessuno:
“Perdono? Non serve, Italo non aveva fatto niente. Un incidente stradale capita a tutti quanti. E’ passato col rosso? Chi lo dice? Non è vero. La scatola nera della macchina ha rivelato che al momento dell’urto la macchina andava a 52 chilometri orari, in linea col limite nei centri urbani. Lui si era messo sulla corsia di destra, quella del verde, per svoltare.
E’ un incrocio pericoloso. Quando ha visto il motorino di Roberta ha cercato di evitarlo andando verso sinistra, una manovra di emergenza. E’ un incidente come tanti, che può accadere a tutti . Quello che dice l’avvocato di Di Lello non è vero. Non passava col semaforo rosso, è solo una conseguenza dell’emergenza, per cercare di evitare l’urto, per evitare l’impatto. E’ stata solo una fatalità”. Molti in paese chiedevano il carcere:
“Perché doveva andare in galera? Non guidava ubriaco, non era sotto effetto di droghe, non è scappato, ha chiamato i soccorsi, e anche il 118 e il 113. Cosa doveva fare di più? Ha avuto solo la disgrazia di avere un incidente stradale”. Il vescovo dice che una giustizia più veloce poteva evitare questa tragedia, lei che dice: “Dico che la giustizia è stata velocissima, non veloce.
In sei mesi l’indagine è stata chiusa con tanto di perizie e rilievi. Rapidissima”. “Invece di aiutare il marito di Roberta – dice ancora D’Elisa - c’è stata una campagna di odio nei confronti di Italo. Manifestazioni e gruppi su Facebook per chiedere giustizia. Ma siamo tutti vittime. Se amici e familiari non ti aiutano il rancore aumenta ”.
LA CONFESSIONE DI FABIO
Corrado Zunino per la Repubblica
Davanti alla foto luminosa della sua Roberta, “Il Signore ti benedica e ti custodisca”, la data della morte alla destra della lapide — primo luglio 2016 — Fabio Di Lello abbassa la testa tra le braccia del comandante della stazione dei carabinieri salito al cimitero di corsa. «Mi sono rovinato, ma non vivevo più».
Lo dice senza piangere. Il luogotenente abbraccia Fabio: «Ora facciamo una passeggiata». Il panettiere di Vasto, ex calciatore dilettante, allenatore della giovanili del Cupello, ora omicida, si consegna. Al cimitero comunale.
Alle 16,30 di mercoledì scorso Fabio Di Lello aveva sparato tre colpi di pistola al corpo di Italo D’Elisa, 22 anni, operaio senza lavoro, colpevole di aver ucciso in estate Roberta — la moglie — travolgendo con la Fiat Punto lo scooter della donna. Fabio, sette mesi dopo, lo ha giustiziato.
«Anto’, non ce l’ho fatta più, qualcosa si era rotto dentro», ha continuato a dire al comandante di stazione Antonio Castrignanò che il 19 luglio, diciotto giorni dopo Roberta, aveva perso il figlio in un incidente stradale: «Nessuno più di me può capirti, ma adesso andiamo, c’è stato troppo dolore».
Fabio Di Lello non era mai uscito da quella disgrazia, la mezzanotte di venerdì primo luglio. Il giovane D’Elisa nel corso Mazzini che innerva il centro di Vasto aveva preso la corsia di destra. D’Elisa era andato dritto: non doveva svoltare, voleva solo saltare la fila. È a 62 chilometri orari, dodici sopra il consentito, e quando brucia il semaforo rosso travolge l’Honda di Roberta Smargiassi che viaggia in discesa. Lei viene sbalzata contro il palo del semaforo, morirà in ospedale. Era sposata con Fabio Di Lello, da un anno e mezzo.
Aveva iniziato a lavorare nella sua panetteria e da lui aspettava un bimbo. Una giovane famiglia distrutta, un venerdì sera. Fabio, 34 anni, la stessa età della moglie, da allora ha smesso di vivere. Ogni giorno un po’ di più. Ha continuato a lavorare, ma l’unico senso lo trovava ricordando Roberta. Tutte le mattine alle sette — tutte — andava al cimitero a salutarla. Aveva chiesto una panchina per potersi sedere e parlare con lei, poi la sera partecipava alle fiaccolate che chiedevano giustizia e sui social network leggeva quell’astio crescente: “Chi uccide con l’auto non può restare a piede libero”. Molti di quei “nickname” sul computer erano di amici, parenti.
Italo D’Elisa era sobrio la sera dello scontro, non si era impasticcato. Dopo l’incidente si era fermato e aveva dato l’allarme. E anche lui, da allora, si era ritirato dalla vita. «Non usciva più di casa », raccontano gli amici, «e aveva perso il suo lavoro per quell’incidente ». Era un operaio interinale: contratto non rinnovato perché aveva un rinvio a giudizio per omicidio stradale.
La prefettura di Chieti gli aveva ritirato la patente, la moto era rimasta in garage e Italo si muoveva in bicicletta. Gli avvocati di Di Lello raccontano di sue strafottenze, provocazioni: non c’è nulla agli atti. «Aveva fatto un errore e lo stava pagando caro», assicurano gli amici. Ma nel corso di un’inchiesta giudiziaria veloce e chiara — c’erano telecamere all’incrocio tra corso Mazzini e via Giulio Cesare, la colpa del giovane Italo era palese — i rispettivi avvocati si sono scontrati alimentando reazioni tossiche sui social.
Alla vigilia di Natale, il 23 dicembre, i difensori di Italo erano usciti con un comunicato che diceva: «La guidatrice dello scooter aveva il casco allacciato male ». Il punto di rottura. Lo sconforto di Fabio Di Lello — già in cura con psicofarmaci — cambia verso. L’uomo, una pistola regolarmente denunciata per uso sportivo, sul suo profilo Facebook ora ha l’immagine del Gladiatore, il film: come Massimo Decimo Meridio vuole vendicare la famiglia distrutta. Si libera dei suoi patrimoni, gira le quote della panetteria ai genitori e aumenta la frequenza dei viaggi al poligono.
Mercoledì mattina Fabio pranza al cimitero, nel pomeriggio l’ultimo allenamento con i ragazzi. «Da tempo conosceva gli spostamenti di Italo», dicono i legali della vittima. L’operaio esce di casa in bici, entra nel wine bar “Drink water” di viale Perth. Fabio lo aspetta, lo avvicina prima che lui risalga sul sellino e gli dice guardandolo: «Adesso tu raggiungi Roberta».
ROBERTA SMARGIASSI E FABIO DI LELLO
Quattro colpi con la calibro 9, lo centra tre volte. Italo muore sul colpo. Fabio si allontana, forse a piedi, risale la circonvallazione e raggiunge il cimitero. Davanti alla foto solare di Roberta, si siede sulla panchina e le racconta: «L’ho fatto per me e per te».
Poi chiama il suocero, che avverte impaurito i carabinieri: «Ha fatto una follia». Il luogotenente sa tutto, dell’incidente, delle liti degli avvocati, e sale al cimitero. Vede Fabio che intorno sta rabbuiando, lo avvicina senza sapere se ha ancora la pistola con sé. L’ha avvolta in un sacchetto di plastica e nascosta dietro una cappella. Insieme, a piedi, s’incamminano verso la caserma, senza bisogno di manette. Domani l’interrogatorio del magistrato in carcere.
FIACCOLATA IN RICORDO DI ROBERTA SMARGIASSI ITALO DELISA ROBERTA SMARGIASSI E FABIO DI LELLO ROBERTA SMARGIASSI E FABIO DI LELLO