Luigi Ferrarella per www.corriere.it
La Procura di Milano ha celato al Tribunale di Milano una videoregistrazione su Vincenzo Armanna (effettuata in maniera clandestina il 28 luglio 2014 dall’avvocato esterno Eni Piero Amara in una società dell’imprenditore Ezio Bigotti) di cui la Procura era da tempo in possesso e che costituiva una prova rilevante a discarico degli imputati poi del processo sulle tangenti Eni-Nigeria:
rilevante perché mostrava come, due giorni prima della presentazione spontanea di Armanna in Procura il 30 luglio 2014, l’ex manager Eni, che nel dibattimento è stato coimputato ma anche accusatore strenuamente valorizzato dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e dal pm Sergio Spadaro di Eni e dell’amministratore delegato Claudio Descalzi, all’epoca pianificasse di «ricattare i vertici della società petrolifera preannunciando l’intenzione di rivolgersi ai pm milanesi per far arrivare «una valanga di merda» e «un avviso di garanzia» ad alcuni dirigenti apicali della compagnia.
È la severa censura che i giudici del processo Eni-Nigeria muovono ai pm nelle 500 pagine di motivazione (depositata oggi) dell’assoluzione lo scorso 17 marzo di Eni e Descalzi (oltre che di tutti gli altri imputati anche di Shell) dall’accusa di corruzione internazionale per il miliardo e 92 milioni di dollari pagati al governo nigeriano per l’acquisizione nel 2011 della licenza petrolifera Opl245, detenuta dietro la prestanome società Malabu dall’ex ministro del Petrolio Dan Etete.
Al punto che al presidente Marco Tremolada, e ai giudici a latere Mauro Gallina e Alberto Carboni — che come raramente accade firmano la motivazione tutti e tre quali estensori della sentenza — «risulta incomprensibile la scelta del pubblico ministero di non depositare fra gli atti del procedimento un documento che, portando alla luce l’uso strumentale che Armanna intendeva fare delle proprie dichiarazioni e dell’auspicata conseguente attivazione dell’autorità inquirente, reca straordinari elementi in favore degli imputati.
i pm di Milano Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro -U43070110205349sDC-593x443@Corriere-Web-Sezioni
Una simile decisione processuale, se portata a compimento, avrebbe avuto quale effetto — scandisce il Tribunale — la sottrazione alla conoscenza delle difese e del Tribunale di un dato processuale di estrema rilevanza».
Nell’udienza del 23 luglio 2019 era stato uno dei difensori del coimputato Eni Roberto Casula a far presente che per caso, cioè assistendo un altro cliente in un’altra città in un altro procedimento, agli atti aveva trovato depositato in quel procedimento, da un’altra autorità giudiziaria,
una videoregistrazione che ad apparente insaputa di Armanna era stata fatta il 28 luglio 2014 di un suo incontro nei locali della società STI spa dell’imprenditore Ezio Bigotti con l’allora avvocato esterno Eni per le questioni ambientali Piero Amara (poi più volte indagato e condannato, l’altro ieri riarrestato dai magistrati di Potenza, e al centro a Milano di aspre diversità di vedute tra il pm Storari e i pm De Pasquale-Pedio su quanto incisivamente saggiare o meno le sue dichiarazioni sull’associazione segreta «Ungheria»), oltre che con Andrea Peruzy, segretario generale della Fondazione Italianieuropei, a dire di Armanna vicina a Massimo D’Alema, e con Paolo Quinto, qualificato da Armanna come «capo della segreteria di Anna Finocchiaro».
In quella videoregistrazione, descrive il Tribunale, si vedeva che Armanna «aveva interesse a “cambiare i capi della Nigeria” (in Eni) per sostituirli con uomini di suo gradimento ed essere così agevolato negli affari petroliferi che aveva in tandem con Amara; e che lo strumento per attuare questo piano era proprio l’“adoperarsi” per gettare discredito sulle persone giudicate di ostacolo e “far arrivare loro un avviso di garanzia”».
Quando in quell’udienza del 23 luglio 2019 il Tribunale sollecitò la Procura a prendere posizione sulla questione posta dalla difesa di Casula, De Pasquale, prima di depositare infine il video, «confermò di essere in possesso del documento già da tempo, ma aggiunse di non averlo né portato a conoscenza delle difese né sottoposto all’attenzione del Tribunale perché ritenuto non rilevante».
Disse: «Il motivo per cui non abbiamo depositato questo atto non è stata la volontà di voler arrecare qualsiasi vulnus, perché ci sono molti altri atti che potrebbero essere in qualche misura rilevante, ma per quella perimetrazione a cui Lei faceva riferimento all’inizio, noi ci siamo attenuti solo a quegli atti che direttamente potevano toccare l’evoluzione delle dichiarazioni di Armanna». Inoltre il procuratore aggiunto minimizzò l’omesso deposito del video, che a suo avviso mostrava soltanto il lato «spaccone» di Armanna, visto che poi i due manager Eni evocati per nome da Armanna in quel video (Donatella Ranco e Ciro Pagano) o non erano mai stati indagati (Ranco) o lo erano stati solo molto tempo dopo (Pagano), senza che Armanna avesse in realtà reso dichiarazioni particolarmente accusatorie a loro carico.
Ma per il Tribunale, a parte le «numerose disparità di trattamento rilevate in ordine alla selezione dei soggetti indagati», per comprendere l’importanza della registrazione occorre saper leggere il linguaggio ricattatorio di chi preannuncia il proposito di rendere dichiarazioni accusatorie che certamente avrebbero colpito i vertici dell’Eni quantomeno in modo indiretto. All’epoca della trattativa Opl245, infatti, Donatella Ranco era la responsabile dei negoziati internazionali e riportava direttamente al direttore generale Claudio Descalzi, il cui coinvolgimento nella vicenda sarebbe quindi stato un’inevitabile conseguenza delle dichiarazioni di Armanna.
L’intenzione manifestata – indica il Tribunale – «era quella di gettare un alone di illiceità sulla gestione da parte di Eni dell’acquisizione della concessione di prospezione petrolifera, in modo da ottenere, attraverso l’intervento di Amara, l’allontanamento dalla Nigeria di coloro che avevano partecipato al negozio, in particolare di Pagano, sostituendolo con qualcuno di più accomodante verso la conclusione dell’affare in corso.
Tale aspetto, soprattutto con riguardo agli affari perseguiti da Vincenzo Armanna e dai suoi sodali in Nigeria nel periodo in esame, non è stato oggetto di alcun approfondimento istruttorio» da parte della Procura. La cui «interpretazione banalizzante» dell’omesso deposito del video è per i giudici «non condivisibile», visto che a loro avviso il contenuto del video invece «si è rivelato di estrema importanza per apprezzare le intenzioni che animavano Armanna al momento della sua presentazione in Procura il 30 luglio 2014».