Marco Valle per "il Giornale"
Da qualche anno negli Stati Uniti le statue «politicamente scorrette» - in particolare quelle dei generali della Confederazione defunta nel lontano 1865 e del povero Cristoforo Colombo - vengono giù come le olive durante la bacchiatura, perdono letteralmente la testa, imbrattate, buttate tra le onde o gettate nelle discariche. Tutto ha avuto inizio a Baltimora nel 2017, quando il sindaco Catherine Pugh rimosse di notte e in tutta fretta la statua del generale Lee tirandola giù dal piedistallo dal quale per oltre 130 anni aveva scrutato la metropoli.
La follia è proseguita poi in altre città grandi e piccole. All'inizio del 2020, dopo la morte dell'afro-americano George Floyd e l'incattivirsi della mobilitazione anti Trump, l'ondata si è trasformata in uno tsunami che nulla risparmia. A Dallas è stato necessario proteggere con un robusto cordone di sicurezza il Cimitero della Guerra Civile, il sacrario dei caduti locali della Confederazione, assalito dai militanti «antirazzisti» decisi a prendersela anche con lapidi e monumenti funebri. È la cancel culture, un'ondata d'iconoclastia amplificata dal movimento Black lives matter. Nel mirino dei cancellatori - appoggiati fragorosamente dal partito democratico e da quasi tutti i media - sono finite statue, bandiere, quadri, strade, feste, tradizioni.
Basta con i monumenti, interdette le bandiere, le festività (compreso l'incolpevole Colombus day). Persino Via col vento - nonostante l'Oscar a Hattie McDaniel, prima donna di colore a vincere il premio - è finito dietro la lavagna. Poi la caccia è continuata nelle università: proibiti Shakespeare, Euripide, Eschilo, Kipling, Dante e ogni altro autore «scorretto». L'obiettivo è ripulire l'immondo passato per trasformare il mondo in una pagina bianca e ripartire da un imprecisato anno zero della purezza.
Lo stesso stile e il medesimo obiettivo delle dittature comuniste e delle teocrazie più cupe. Per fortuna, qualcuno ragiona e reagisce. È il caso dello stato dell'Alabama, il cuore profondo di Dixie. Già nel 2017 il Senato locale aveva varato, per merito del repubblicano Gerard Allen, il Memorial Preservation Act, una legge che vietava esplicitamente «il trasferimento, la rimozione, l'alterazione o qualsiasi altra forma di danneggiamento contro i monumento esistenti da 40 anni o più». Perle amministrazioni comunali che non rispettavano le norme era prevista una multa una tantum di 25.000 dollari. Un segnale forte che però non ha scoraggiato gli iconoclasti e i loro sponsor politici.
Nonostante la legge, hanno perseverato nella crociata, abbattendo in questi anni altri dodici monumenti. Ma il senatore Allen è un tipo tosto ed è tornato alla carica con un nuovo disegno di legge che prevede multe salatissime per chiunque (amministratori o manifestanti) rimuova «il patrimonio monumentale»: 5000 dollari di multa per ogni giorno che passa prima che l'installazione sia ripristinata «in ottimo stato». In più, se la statua viene danneggiata durante una rivolta o un «raduno illegale», il reato diventa un crimine di classe B con una pena prevista di 20 anni di carcere.
Martedì scorso, con un solo voto contrario, il progetto è stato approvato dalla commissione per gli affari governativi dello Stato. Il prossimo passo sarà nell'aula del Senato, dove i democratici hanno promesso battaglia. Ma Gerard Allen non demorde e si dichiara ottimista al punto da proporre agli avversari l'erezione a Selma di una statua per il defunto leader afroamericano John Lewis. Un ramoscello d'ulivo in una mano guantata.
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