Marino Niola per “la Repubblica”
I millennials della camorra hanno il tatuaggio nell’anima. E il decalogo della famiglia lo portano inciso sulla pelle. Rispetto, fedeltà, onore. Non tre semplici parole, ma tre articoli di fede criminale. Gli altri li hanno soprannominati il clan dei tatuati. Loro si sono autodefiniti i barbudos, ma il loro modello non sono certo i rivoluzionari cubani. Somigliano molto di più ai miliziani dell’Isis, a una banda di narcos latinoamericani, a degli hipster sottoproletari.
Molti di loro hanno il nome del capo, Bodo, nickname di Marco De Micco, scritto sul fianco, sull’avambraccio, sul fondo schiena, spesso in mezzo a due pistole fumanti. Altri hanno disegnati Kalashnikov, pistole, mastini napoletani, scorpioni, pallottole, P38, corone di Rolex. Come totem primitivi che dicono a chiare lettere identità, appartenenza, aspirazioni, desideri. Insomma segni particolari per carte d’identità maledette.
Sul pettorale sinistro di Raffaele Cepparulo, un esponente dei tatuati, vittima due giorni fa dell’ennesima spedizione punitiva, perfino l’amore era scritto a caratteri di sangue. Love. Quattro lettere, quattro armi usate come font. Una pistola per la L, una bomba a mano per la O, un rasoio per la V e un mitra per la E. Lo stile e le modalità di queste autocertificazioni di ferocia fanno di queste bande di ventenni scatenati l’ultimo capitolo di un’antropologia del corpo criminale. Che viene da molto lontano e conta numerosi esempi.
«Fin dopo morto ti perseguiterò». Era un classica pugnetura, letteralmente pungitura, così si chiamava il tatuaggio nel gergo della camorra ottocentesca. Che sin da allora usava il corpo come un palinsesto sul quale incidere la propria storia di guaglioni di malavita. Amori e vendette. Disprezzo per i nemici e fedeltà verso gli amici. Come dire che più la persona è importante più informazioni deve archiviare il suo corpo. E sulle mani, un sistema di punti e linee segnalava inequivocabilmente il grado occupato nella gerarchia dell’onorata società. Proprio come mostrine e stellette sulla divisa degli ufficiali.
Un celebre antropologo criminale, Abele De Blasio, promotore del primo Gabinetto scientifico di polizia, scrisse addirittura un manuale per interpretare i segni che istoriavano il corpo degli affiliati. Il libro uscì nel 1890 con la prefazione di Cesare Lombroso, che definì la camorra un arruffato e terribile problema per l’Italia e i tatuaggi «una scrittura ancora geroglifica come nei popoli selvaggi».
All’epoca, infatti, si tatuavano solo delinquenti, marinai, prostitute. Gente che appariva sideralmente distante dalla società civile, almeno quanto i Maori della Nuova Zelanda che si incidevano sull’epidermide i nomi degli alleati, degli amici caduti in combattimento e, soprattutto, quelli dei nemici uccisi. Esattamente quel che fanno adesso i giovani leoni della criminalità organizzata, a Napoli come altrove. È il caso degli adepti della yakuza, la potente mafia giapponese, che sotto l’inappuntabile completo grigio non hanno un centimetro di pelle che non sia scritto o disegnato.
La differenza tra ieri e oggi è che ai nostri giorni il tattoo non è un fatto da marginali, ma un imperativo della cultura di massa. Ragion per cui le nuove leve della camorra devono necessariamente amplificare segni e disegni, temi e modelli. Qualcuno, per essere chiaro fino in fondo, si è fatto incidere sul collo a caratteri cubitali la parola Camorra. E sulle spalle del defunto Cepparulo campeggiava la scritta Acab, acronimo di All cops are bastards, tutti i poliziotti sono bastardi. Ci sono tatuatori stipendiati dai boss per marchiare i loro brothers in arms. Sono i versetti satanici di una generazione che ha scelto l’inferno.