Marinella Venegoni per la Stampa
Francesco Guccini, quella montagna d’uomo, così grande che pare il gigante buono delle favole emiliane, con la sua erre che accarezza lo spirito, non ha proprio l’aria di uno che si arrabbi spesso. E l’età, poi, si porta appresso un’attitudine diversa: la saggezza ha riserve affollate di comprensione. Ma in gioventù era un’altra temperie. Era uno che ci dava dentro, in quei tempi dannati di furori e di ideologie devastanti, e ha avuto anche lui le sue sfuriate. Una, si è anzi cristallizzata in forma di canzone sotto il titolo della famosissima L’Avvelenata. Una storia che vale la pena raccontare a chi - nei turbolenti Settanta - non c’era o era troppo distratto dalla bulimia della vita per accorgersene.
C’è chi ci scherza sopra ancora adesso, dopo 41 anni, sostenendo che la decisione di Francesco di ritirarsi da qualsiasi occasione pubblica, annunciata soltanto lo scorso gennaio, sia da attribuire alla stanchezza per la solita domanda che in ogni occasione qualcuno tirava fuori: per chi era, quell’«Avvelenata»? Chi aveva scatenato tanta rabbia? L’avvelenata («Secondo voi a me cosa mi frega di assumermi la bega di stare qui a cantare/ Godo molto di più nell’ubriacarmi...») è la canzone più tute e l’ironia fra una canzone e l’altra nei concerti. Ma Stanze di vita quotidiana, ripiegato, intimista, aveva suscitato reazioni tiepide. Poche di quelle canzoni finirono del resto nelle scalette dei concerti, da allora fino al 2013 quando annunciò il ritiro dai concerti. C’è tiepido e tiepido, però.
Mettendosi al lavoro per un futuro must della sua discografia, Via Paolo Fabbri 43, gli girava in testa la recensione alle Stanze di un giovanissimo critico di Gong, periodico tenuto d’occhio dal mondo della musica popolare «alta». Riccardo Bertoncelli, novarese dotto e pugnace, più appassionato di Dylan che non di Francesco, aveva scritto: «Non capisco perché Guccini continui a fare canzoni». E ricordate le opere precedenti, sbottava: «Perché lasciarsi irretire da una ruota come quella del bisogno discografico che rende impossibile l’abbandono del FrancescoGuccini-trentamila-copie-perLP?». E ancora: «I suoi testi sono senza magia, nudi, freddi... Per chi sgranare un rosario assolutamente senza novità?». Per molto meno, oggi, non saresti più invitato a una intervista.
Gli uffici stampa individuerebbero un sostituto pronto, nell’indifferenza di quelle testate che lasciano fare. L’artista sarebbe rassicurato dai social, il colpevole annegato da trolls, haters e fanclub. Ma erano i ‘70, e Guccini non era un divetto da stampino. La sua penna colpì con il bisturi, dal primo celeberrimo verso: «Ma s’io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto, le attuali conclusioni/ Credete che per questi quattro soldi, questa gloria da stronzi, avrei scritto canzoni...». Nella furia, ce n’era per «critici, personaggi austeri, militanti severi», ma anche per i colleghi: «Colleghi cantautori, eletta schiera, che si vende alla sera per un po’ di milioni... che cosa posso dirvi? Andate e fate, tanto ci sarà sempre lo sapete/ Un musico fallito, un pio, un teorete, un Bertoncelli o un prete a sparare cazzate». La caccia al Bertoncelli durò poche ore, allora il mondo editoriale era piccolo e la musica molto letta.
Il critico ha raccontato che seppe della citazione dal postino che gli portava la cartolina militare (allora non c’erano i talent, e anche i postini ascoltavano Guccini). Sempre Bertoncelli, raccontò di aver tirato su il telefono e di esser stato invitato nella mitica Via Paolo Fabbri 43, per un colloquio chiarificatore che si rivelò cordiale: Guccini si offrì addirittura di cancellare il suo nome dal testo, ricevendo cortese rifiuto. Guccini rimase una persona seria. E pure il critico, travolto da tanta pubblicità.