Stefano Landi per "www.corriere.it"
Da quando ha postato il suo caso sulla chat MaMi (dove si condividono oneri e onori delle mamme milanesi), sul suo telefono piovono messaggi di solidarietà. I toni non sono tanto di umana compassione, quanto di rabbia mista a sfiducia, per casi analoghi di mamme che si sono ritrovate in aula strette nella toga a una settimana dal parto.
Monica Bonessa, 35 anni, è un avvocato talmente appassionato del suo lavoro da non mollarlo neanche con l’imminente arrivo del terzo figlio. «Sono incinta all’ottavo mese e mezzo. Ho chiesto il rinvio di un’udienza del 13 giugno per maternità a rischio di parto prematuro» racconta.
Ha sventolato il certificato medico. Legittimo impedimento. Rifiutato. Venti ore prima dell’udienza le è stato negato il rinvio. In udienza ha dovuto mandare un amico collega che si era dovuto studiare il caso in otto ore. Le era già successo di sbattere su un mancato rinvio. Talvolta costretta dal volere della controparte, talvolta da quello del magistrato.
O da un mix delle due cose. «Eppure queste sono quelle più delicate. Un’altra decina di udienze che riuscivo a gestire le ho affrontate senza batter ciglio. Ma il rinvio non può diventare la normalità. E nemmeno si può passare la vita a chiedere favori ai colleghi più disponibili».
Ultimamente Monica riusciva a gestire il lavoro da casa. A scrivere pareri e studiare casi sia civili che penali. Si occupa di tutela di minori. E quando non ce la faceva delegava a colleghe sensibili alla causa. Non a caso tutte mamme.
Eppure una normativa ci sarebbe. Ha dovuto scrivere al comitato Pari Opportunità dell’Ordine avvocati di Milano, per scoprirlo. Il protocollo 205 del 2017 all’articolo 1 equipara i diritti di un avvocato incinta a quelli di un dipendente. Concedendo il diritto alla proroga nei cinque mesi a cavallo del parto.
«Solo che sostanzialmente non viene applicato perché non lo conosce nessuno. Mi chiedo se esista un diritto alla salute e nello stesso tempo uno al lavoro. Di fatto mi hanno obbligato ad andare in udienza oppure a pagare qualcuno che lo facesse per me». Un problema probabilmente più ampio e insito nel mondo dei tribunali, fa notare qualcuno in Rete, evidenziando come fino a poco più di un secolo fa le donne non potevano nemmeno esercitare questa professione.
Una mamma le scrive: «Se fossimo tutte come te il mondo sarebbe migliore». A Monica il coraggio effettivamente non manca dato che dopo la nascita del secondo figlio ha convocato un’udienza di famiglia. «Ho fatto due conti con mio marito e ci siamo dati un anno di tempo. Ho lasciato lo studio legale in cui lavoravo e mi sono messa in proprio». Si è presa uno studio in condivisione con altri colleghi a due passi dal tribunale. E via con una carriera fatta (anche) di sacrifici personali.
Da qualche notte non dorme. E non è la pancia che ingombra. Sarà lo sfogo su Facebook in cui chiedeva umanità, la lettera al presidente del Tribunale Roberto Bichi o forse una casualità, qualcosa (di buono) si è mosso per un’altra udienza convocata il 2 luglio e rinviata ad ottobre.
«Il problema oltre alle leggi e ai protocolli — dice Tatiana Biagioni, presidente del Comitato pari opportunità dell’Ordine degli avvocati di Milano — è sempre culturale, rimane un tema di scarsa attenzione al periodo così vicino alla gravidanza che se ci si pensa bene è legato anche alla giusta difesa dell’assistito. Perché non è così semplice farsi sostituire da un collega, quello dell’avvocato è un incarico fiduciario. Mentre la maternità è una funzione sociale imprescindibile e deve valere per il lavoro dipendente e per i lavoratori autonomi»
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