Estratto dell’articolo di Giuliano Ferrara per “il Foglio”
Michela Murgia me l’ero persa. Persa in una lontananza estrema, estranea, culturale politica e ideologica. Da come sta mettendo in scena la propria morte, con la scrittura di un libro di racconti e l’oralità della comunicazione ai giornali, la distanza si accorcia e ne viene un vivo interesse umano che ha più dell’ammirazione che della compassione.
Cura un cancro renale al quarto stadio metastatico ma non è in assetto di combattimento, non lotta, dice, non lo esorcizza come un alieno, lo accetta come parte del proprio corpo e complemento di una vita che le si annuncia breve ma ricorda felice […]
Sarda fin nel profondo, è severa. Giudica e manda senza complessi. La coppia tradizionale, il matrimonio di coppia al quale ora si piega per mere ragioni legali, è fomite di menzogna e tradimento. In Italia […] c’è il fascismo, e lei spera di morire a fascismo tramontato. […] Nel momento in cui l’esistenza si spencola su un burrone […] assume […] senza retorica un punto di vista sapiente, rassegnato e per quanto possibile “sereno”.
Le questioni della morte, della sua ritualità raccontata nel suo romanzo di esordio sulle misteriose pratiche eutanasiche delle comunità sarde, Accabadora, ritornano in un grido cattolico e cardarelliano, “morire sì / non essere aggrediti dalla morte”. Vuole avere il tempo per distribuire a sé stessa e agli altri i pani e i pesci del miracolo della vita umana. E’ un atteggiamento raro e prezioso.
[…] le sue opinioni di contrarian sono la materia prima corrente in una sfera di riluttanti e ribelli che ha caratteristiche di massa e tratti conformisti, ma con una sua cocciutaggine e autenticità capace di spiazzare. Ora che una scrittrice e ideologa […] annuncia il suo progresso cristiano verso una morte che fa rivivere la comunione degli esseri, […] mi spiace pensare che in una vita e in una professione di invadenza e curiosità verso gli altri, quel carattere, quel tipo, me l’ero perso.
michela murgia a otto e mezzo 1