Lorenzo Cremonesi per il “Corriere della Sera”
Dove abbiamo fallito? «Si è preteso di esportare la democrazia e i valori occidentali senza tenere conto della cultura e delle tradizioni afghane. In più, la coalizione militare alleata marciava a ritmi diversi. Gli eserciti anglosassoni applicavano le regole di guerra, mentre noi europei lavoravamo come fossimo forze di polizia con un compito di rigenerazione morale del Paese. Il risultato dopo vent’anni è questa tragica Caporetto dell’esercito afghano».
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Marco Bertolini non si tira indietro. E nel consueto stile franco con cui operava da generale della Brigata paracadutisti Folgore a Kabul nel 2008 (oltreché nel ruolo di Capo di Stato Maggiore Isaf dell’intero contingente internazionale) fornisce la sua spiegazione del disastro afghano.
Lo aiuta la condizione di generale in pensione che a 68 anni, dopo un quarantennio di servizio spesso con le missioni militari italiane all’estero, gode dell’esperienza e ha la libertà per contribuire a capire.
Gli afghani di fronte ai talebani, una rotta drammatica e rapidissima. Come lo spiega?
«Certamente la Nato e i nostri eserciti europei dovranno fare i conti con questa realtà. Dovremo valutare i fallimenti e imparare per le prossime missioni tra Africa e Medio Oriente. Nella nuova operazione Takuba stiamo adottando gli stessi criteri di addestramento delle forze locali nel Sahel.
In Libia sono stati i turchi ad agire militarmente al nostro posto. La lezione afghana va studiata. La spiegazione di questo disastro si articola su due livelli: uno politico e l’altro tattico-operativo. Noi miravamo a occidentalizzare l’Afghanistan cercando di imporre i nostri sistemi democratici.
Ma loro hanno tradizioni del tutto differenti. Per esempio, non hanno partiti. I pashtun sono un’etnia legata a tradizioni locali, e così gli hazara o i tagiki. Ci siamo illusi che l’accoglienza calorosa riservataci dalle élite cittadine rappresentasse il Paese intero. Ma la maggioranza sta nelle campagne, sulle montagne, tra i villaggi e ci ha sempre guardato con sospetto, se non aperta ostilità. Tanti non capiscono l’insistenza sui diritti delle donne, la vedono come un’intrusione».
In due decenni non ci avete mai pensato?
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«Se ne è parlato molto ai comandi Isaf. I generali americani David McKiernan e Stanley McChrystal insistevano che occorreva conquistare la simpatia della popolazione, lavorare sul territorio con la gente. Ma ne uscì poco».
E l’aspetto operativo?
«Purtroppo la nostra è sempre stata una coalizione militare a scartamento alternato. Gli americani, assieme agli inglesi, facevano la guerra nel senso completo della parola.
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Noi invece, assieme a tanti altri contingenti, insistevamo nel presentare le nostre operazioni come civili e di pace: portavamo libri ai bambini, costruivamo scuole, centri di assistenza per le donne.
In certi momenti fu come se noi fossimo in Afghanistan unicamente per fare abolire il burqa, si era persa del tutto la dimensione militare. Certo che ogni tanto eravamo costretti a sparare. Ma alla nostra opinione pubblica dovevamo dire che lo facevamo solo per difenderci. Le nostre regole d’ingaggio erano disomogenee e per noi limitanti».
Per esempio?
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«Nel caso una nostra pattuglia avesse incontrato sulla strada Osama bin Laden in persona non avrebbe mai potuto sparare per prima, ma limitarsi a rispondere al fuoco. Quando i nostri mezzi venivano danneggiati da tiri nemici il caso andava alla Procura di Roma per l’inchiesta e il mezzo veniva bloccato. Procedure normali in Italia, non in zone di conflitto. Nel 2014 la nostra missione si è trasformata da “combattimento” ad “addestramento” delle truppe locali. Ma i talebani hanno continuato a rafforzarsi».
Biden ha fatto male a ordinare il ritiro?
«Non è stato Biden, ma Trump a volere l’accordo con i talebani per il ritiro. E comunque era inevitabile, dopo due decenni la situazione era ormai bloccata. Certo è amaro constatare che dopo tanti sforzi e lavoro i talebani tornano al potere più forti e più estremisti di prima».
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