1. IMPRESE DELUSE DALLA GLOBALIZZAZIONE ESTERO ADDIO, SCOCCA L'ORA DEL RIMPATRIO
Francesca Paci per “la Stampa”
rilocalizzazione made in italy 2
Tecnicamente si chiama «back reshoring» e sta per rilocalizzazione, il ritorno a casa delle aziende che finora avevano lavorato all' estero, privilegiando le sedi a basso costo di produzione. Mentre i laureati italiani continuano a fuggire al ritmo di 25 mila l' anno, la manifattura, vittima illustre del passaggio dal capitalismo otto-novecentesco a quello finanziario, registra un significativo cambio di tendenza. Secondo il rapporto di Eurofound «Reshoring in Europe 2015-2018» il nostro Paese (39 casi) segue la Gran Bretagna (44 casi) in testa alla classifica del contro-esodo che seppure non possa ancora definirsi un fenomeno massiccio (in Italia si contano circa 120 reshoring tra il 2014 e il 2019) aumenta regolarmente da cinque anni a questa parte.
rilocalizzazione made in italy
«Siamo tornati in virtù del nostro radicamento sul territorio e perché per realizzare un prodotto di qualità dobbiamo farlo in Italia» racconta agli analisti di Eurofound Giuliano Grotto, fondatore di Fitwell, il brand da amatori di scarpe da trekking migrato nel 1999 in Romania per vendere a costi più competitivi e rientrato poi (parzialmente) nella natia a Montebelluna.
L' abbigliamento, la moda e in particolare l' extra lusso, sono l' avanguardia di un cambiamento di prospettive economiche in linea con la stagione politica corrente, una sorta di post globalizzazione in cui, a varia intensità di nazionalismo, la priorità è riportare a casa il lavoro perduto (nel triennio 2015-2017 la rilocazzazione ha creato in Europa 12.840 nuovi posti di lavoro). Una classica questione di domanda e di offerta, considerando che uno studio del 2017 di PWC-Price Waterhouse Coopers mostra come il 37% dei Millennials sia disposto a pagare fino al 5% in più per un prodotto Made in Italy (il 27% fino al 10% in più).
Chi ingrana la marcia indietro allora e, soprattutto, perché? Le ragioni sono pratiche, conferma un' analisi recente dell' Università di Udine, praticissime: l' aumento dei costi di produzione all' estero (dove l' ex proletariato asiatico o est-europeo ha cominciato a organizzarsi sindacalmente), i tempi delle consegne, la riorganizzazione globale delle aziende, la riscoperta forza del brand Made in Italy specialmente adesso che le norme sulla sicurezza Ue impongono l' indicazione dell' origine di tutte le merci. La qualità sembra insomma aver recuperato terreno, prendendosi la rivincita sullo strapotere della produzione seriale di fine del secolo scorso. E poi c' è la sostenibilità, il fair trade, il valore umano e ambientale che al netto di quanto si irrida il politicamente corretto ha fatto breccia e profondamente nella società contemporanea.
patrizio bertelli miuccia prada
E così, la Asdomar ha chiuso un po' di stabilimenti di tonno in Portogallo e ne ha riaperti in Sardegna, la Global Garden Products ha spostato i suoi vivai slovacchi a Treviso, la GTA Moda è tornata dalla Romania e l' Artsana dall' India e dalla Cina, l' un tempo famosa "fabbrica mondiale" dove nonostante il cambio di passo dovuto all' aumento dei prezzi hanno ancora sede il 30% delle delocalizzazioni.
Poi ci sono le eccellenze dell' eleganza italiana: Prada, Ferragamo, Zegna, Louis Vuitton, Ferragamo, Bottega veneta, Geox, Benetton, sono alcuni dei grandi che ci hanno ripensato e dopo la fuga d' inizio millennio verso l' estremo Oriente (ma anche in Romania, Polonia, Repubblica Ceca o nella efficientissima ancorché occidentale Germania), sono rimpatriati.
A conti fatti, quel che si perde spendendo di più in fase di produzione si guadagna nella credibilità del prodotto, conferma la Vimec,che dopo oltre 25 anni di ascensori costruiti in Cina si è resettata a Luzzara, le origini. È un po' la storia del Black Friday sfidato dal Green Friday: consumare meno sì, dicono i giovanissimi, ma anche consumare meglio pare avere il suo perché.
2. "CHE BRAVI GLI OPERAI ITALIANI" E CANDY ABBANDONA PECHINO
Fabio Poletti per “la Stampa”
Alla fine sono gli operai a fare la differenza. Operai come Marilena Santomaso, da 27 anni alla catena di montaggio, da anni in cassa integrazione, 1.300 euro al mese di stipendio ma capace di spostare se non le montagne almeno un colosso industriale come Haier, la società cinese che ha deciso di riportare in Italia la produzione di lavatrici ad incasso marchio Candy: «È stata una cosa inaspettata ma positiva. È un riconoscimento del nostro lavoro». Poi fila via con la sua tuta blu, inghiottita dal turno che inizia dietro al cancello di questa fabbrica fatta di capannoni grigi nel nulla industriale di Brugherio, tra Milano e Monza, dove inizia la Brianza.
i cinesi di haier si prendono la candy di brugherio
Sembra il gioco del Risiko. O quello dell' oca. Un anno e mezzo fa la famiglia Fumagalli vende fabbrica e marchio, uno dei brand del made in Italy leader negli elettrodomestici, ai cinesi di Haier, un impero di 64 filiali, 29 fabbriche e fatturato che si misura in decine di miliardi in dollari. Sul piatto, i cinesi mettono 475 milioni di euro. Il processo di delocalizzazione corre al galoppo. Lo avevano iniziato i Fumagalli nel 2012 quando Candy sbarca a Jiangmen in Cina, con un impianto da 35 milioni di euro in grado di sfornare 2 milioni di pezzi.
Il made in China quasi ammazza la fabbrica di Brugherio, dove il marchio Candy si vede ovunque. I dipendenti sono rimasti 450, 135 sono gli esuberi salvati da un accordo di cassa integrazione da qui a settembre 2020. Due giorni fa il management di Haier fa marcia indietro. La produzione di lavatrici da incasso di alta gamma torna a Brugherio, sul piatto ci sono 600 milioni di investimenti, agli operai viene dato un bonus di 800 euro una tantum per il riconoscimento della loro professionalità, la produzione industriale potrebbe passare dai 400 mila pezzi attuali a 500 mila se non di più. Unica incognita la pianta organica, la cassa integrazione e quei 135 che potrebbero essere riassorbiti.
lo stabilimento candy di brugherio
Pietro Occhiuto segretario generale della Fiom Cgil di Monza Brianza era al tavolo della trattativa: «Ci voleva una proprietà cinese per riportare in Italia una produzione che italiani avevano portato in Cina. La scelta di Haier è stata presa dopo aver riconosciuto le capacità degli operai italiani. Le lavatrici ad incasso sono considerate a maggior valore aggiunto e necessitano di capacità operaie che evidentemente non si trovavano nelle fabbriche cinesi. Questo in sostanza vuol dire che per gli imprenditori cinesi gli operai italiani sono più capaci».
Il valore del personale Verissimo visto che molte aziende europee non delocalizzano in Cina lavorazioni high tech perché il personale non è ancora all' altezza. Ma c' è di più. Il mercato degli elettrodomestici in Europa vale tanto. In Germania, leader continentale, il settore fattura 13,96 miliardi, in Italia 8,61 miliardi. Ceced l' associazione che riunisce 103 aziende fornisce il dato sulle esportazioni, che in Italia valgono i due terzi della produzione. La battaglia si gioca qui. E non a caso Haier ha spostato a Brugherio pure il suo quartier generale in Europa. Eliana Dell' Acqua, segretaria di Fim Cisl dice che pure i costi di trasporto potrebbero aver indotto la scelta dell' azienda di tornare: «Se devi vendere una lavatrice in Europa, costa meno se non la produci in Cina. Ora ci aspettiamo la modernizzazione degli impianti». Lo spera pure Raimondo Riggio, alla catena di montaggio dagli Anni '90: «Ho visto tutte le delocalizzazioni.
Era finito quasi tutto in Cina, è ora di tornare indietro».