Annalisa Chirico per Dagospia
Quello di Andy Whelan è un dolore che rinuncia al pudore. Un padre, devastato dalla morte della figlia Jessica, anni quattro, pubblica su Facebook la foto che non vorresti vedere: una bambina intubata si contorce dal dolore, le lacrime le solcano il viso. Jessica è straziata dal male fisico. Tredici mesi fa le viene diagnosticato un neuroblastoma al quarto stadio, tumore maligno che compare principalmente nei primi anni di vita.
‘Le ho detto che andava tutto bene, di chiudere gli occhi e di dormire. Poi l’ho baciata’, sono le parole di un padre che, dopo il fallimento della chemioterapia e del farmaco sperimentale, prende atto della diagnosi dei medici: ogni altro intervento potrebbe forse prolungare l’esistenza di Jessica, ma guarirla, no, è impossibile. Così, tra una prosecuzione incerta, con nuovi farmaci e patimenti, e il lieve assopirsi eterno i genitori scelgono il secondo. ‘L’abbiamo lasciata andare. Adesso Jessica non soffre più’, si è addormentata nel sollievo delle cure palliative, senza accanimento.
Andy ha spiegato di aver pubblicato la foto, un ‘ricordo privato’, per accendere i riflettori sul dramma dei tumori pediatrici: ‘La realtà del cancro – ha detto - non è quella dei bimbi calvi sorridenti circondati dai vip’, lui e la compagna hanno deciso di destinare gli organi della piccola alla ricerca scientifica.
La foto di Jessica è un pugno nello stomaco, la natura comanda che i figli assistano alla scomparsa dei genitori, non il contrario. Resta il grande tema del fine vita, di chi decide per conto di chi, della cosiddetta ‘dolce morte’ che dolce non è mai. La morte è soccombenza, e nella resa non vi può essere punta di douceur. Nel caso di Jessica, minorenne, i genitori hanno scelto la desistenza terapeutica, hanno detto no all’accanimento rifiutando interventi che non avessero uno scopo segnatamente analgesico.
Gianni Bonadonna è stato, con Umberto Veronesi, uno dei padri dell’oncologia italiana, dobbiamo a lui l’introduzione delle cure palliative in Italia. Entrambi non ci sono più: il primo se n’è andato lo scorso anno, Veronesi pochi giorni fa. Entrambi erano convinti che, garantendo a ogni paziente un supporto farmacologico adeguato contro il dolore fisico, la richiesta di eutanasia si sarebbe ridotta sensibilmente.
Bonadonna, in particolare, era favorevole alla cosiddetta eutanasia attiva, al suicidio assistito, mentre si opponeva a quella passiva, alla logica dell’‘iniezione letale ad opera di un medico che si fa boia’. Veronesi notava qualità e difetti del ‘modello olandese’; colpito dalla drammatica dipartita di Mario Monicelli, s’interrogava: ‘A Monicelli, che l’aveva richiesta ripetutamente in ospedale, una puntura letale per un trapasso dolce è stata negata e lui si è buttato dalla finestra. Questa è civiltà?’.
Al di là di come la si pensi, tra schieramenti che spesso somigliano ad opposte tifoserie, resta un fatto: lo stato di prostrazione psico-fisica, che in certi casi induce il malato alla richiesta estrema, è dettato anzitutto dalla sofferenza. Dai patimenti che leggete sul volto della piccola Jessica.
Patire sofferenze indicibili usura la voglia di vivere anche del più devoto dei praticanti.
Non è civiltà imporre al paziente sofferenze evitabili grazie ai farmaci già oggi esistenti ma non ugualmente reperibili sul territorio nazionale. Tra Barcellona Pozzo di Gotto e Torino, si sdraia una penisola che è ‘giardino del mondo’ ma anche salute a macchia di leopardo. E quando si ha a che fare con il diritto alla salute e a non soffrire, tutto ciò è viepiù intollerabile.
Nel dibattito sul fine vita, che periodicamente riaffiora pure in Italia e che, vi confesso, non mi appassiona, manca un’adeguata attenzione al momento della sofferenza fisica. Potrebbe essere la chiave di volta, il punto di contatto tra gli uni e gli altri: perché imporre il dolore quando si può evitare? Forse per un senso di espiazione divina?
Lo insegnano i genitori di Jessica: investire nella ricerca scientifica a favore della terapia del dolore è fondamentale. Sollevato dai patimenti fisici, il paziente si riavvicina alla vita, può riscoprire il gusto di una passeggiata e di una carezza. Se poi persiste nella volontà di cessare le cure, possa egli agire di comune accordo con il medico. Come già avviene oggi, sott’acqua. Senza leggi eutanasiche.