Tonia Mastrobuoni per www.repubblica.it
Quando lesse la sentenza, dopo venti lunghissimi mesi di testimonianze strazianti, Hans Hofmeyer era visibilmente commosso. “Alcuni di noi non saranno più capaci di guardare negli occhi allegri e felici di un bambino senza che gli vengano in mente gli occhi interroganti, fiduciosi e pieni di angoscia dei bambini che finirono ad Auschwitz”. Il giudice del primo e più importante processo contro i criminali nazisti che si celebrò in Germania negli anni ‘60, l’“Auschwitzprozess” di Francoforte, morto nel 1992, è entrato nei libri di storia come un esempio di modestia, rigore ed equilibrio.
Nei venti mesi di udienze Hofmeyer non si concesse mai alla stampa, tenne lontane le telecamere, governò l’aula con tono asciutto e severo. Lo Zeit lo incoronò, alla fine del maxi-processo, un “fanatico dell’oggettività”, la Welt lo definì un “modello di buonsenso”. Ma la sua biografia rimasta per sessant’anni immacolata rischia di essere stravolta da alcuni documenti scoperti di recente. Fino al 1945 Hofmeyer era stato un fervente nazista, un giudice-boia.
Nell’anno e mezzo del primo processo di Auschwitz, i venti nazisti accusati di crimini indicibili videro sfilare sul banco dei testimoni circa 360 sopravvissuti del campo di sterminio polacco. Molti erano tornati per la prima volta nel Paese che li aveva perseguitati e torturati, solo per ricordare davanti al giudice le atrocità vissute.
hans hofmeyer processo su auschwitz
Ma alla fine delle sconfinate prove portate dal leggendario procuratore Fritz Bauer - l’uomo che scovò Adolph Eichmann - soltanto sei imputati vennero condannati all’ergastolo, undici se la cavarono con pene fino ai 14 anni. Tre furono assolti per mancanza di prove.
Anche se il verdetto fu giudicato da alcuni troppo clemente, Hans Hofmeyer è considerato ad oggi un gigante. Ma forse non è un caso, tutto quel rigore, quel noto tentativo di non fare un processo troppo politico che caratterizzarono la sua gestione. Un giovane ricercatore volenteroso di aggiungere dettagli a una biografia già monumentale, Matias Ristic, si è messo a scavare negli archivi dell’Assia e ha scoperto ombre inquietanti. I documenti venuti alla luce e raccontati oggi dalla Frankfurter Allgemeine Sonntagszeitung dimostrano che Hofmeyer era un fanatico nazista che costrinse miriadi di donne alla sterilizzazione forzata. E Ristic ha scavato finora soltanto nei documenti che arrivano al 1939. Poi Hofmeyer fu promosso.
I documenti non raccontano la storia di un giudice giusto, ma di un carnefice spietato. Nel dodicennio della dittatura di Hitler, l’igiene della razza applicata a disabili, malati psichiatrici, epilettici, ciechi e sordi fece finire tra 300 e 400mila esseri umani sotto i ferri dei macellai del regime; furono 5.000 le morti per complicazioni da sterilizzazione. Nei testi che riguardano Hofmeyer c’è il caso di una bambina di un villaggio costretta alla sterilizzazione perché si era ammalata di meningite.
Che non è ereditaria, com’è noto. Ma il giudice sentenziò, lapidario, che la bambina era “completamente stupida”, che “aveva fallito su tutta la linea” a scuola. E la fece sterilizzare. Altri processi riguardano bambini con problemi di socializzazione o con turbe psichiche. Hofmeyer, convinto sostenitore dell’eugenetica, della purezza della razza ariana, insistette persino con gli epilettici.
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Che il giudice del primo processo di Auschwitz avesse esercitato anche durante il Terzo Reich era noto. Anzi, quando furono scelti i giudici, il primo fu scartato perché aveva avuto dei parenti perseguitati dai nazisti e si temeva non potesse essere imparziale. Hofmeyer fu scelto proprio perché aveva lavorato durante il nazismo ma senza che fossero emerse ombre particolari. E uno degli avvocati dei sopravvissuti che testimoniarono all’Auschwitzprozess, Henry Ormond, definì poi “esemplare” il suo lavoro.
Politicamente, quei processi furono la prima, vera occasione per la giovane e democratica Bundesrepublik di dimostrare al resto del mondo che aveva intenzione di fare chiarezza sull’Olocausto. Hofmeyer stesso si rivolse agli imputati ricordando che “anche nella più feroce delle dittature non si possono dimenticare gli obblighi morali verso altri esseri umani”. Quelli che il giudice-boia stesso si era dimenticato per decenni.
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