1 - "IO, NARCOTRAFFICANTE PER DISPERAZIONE RECLUTATO DAVANTI AL VIDEOPOKER"
Nicola Pinna per “la Stampa”
L' ufficio assunzioni delle multinazionali della droga si nasconde nel buio dei centri scommesse, tra slot machine e videopoker. «Mi hanno contattato proprio lì, avevo appena buttato via gli ultimi dieci euro del giorno. Senza giri di parole mi hanno proposto un viaggio: dal Piemonte alla Sardegna per diecimila euro. Non mi hanno detto neppure cosa dovessi trasportare, ma ovviamente avevo capito tutto.
Nei nostri dialoghi non abbiamo mai pronunciato la parola droga e quando sono partito per la missione non sapevo se avessero caricato nella mia macchina cocaina o qualche altra sostanza. Mi avrebbero pagato a consegna effettuata, invece sono finito in manette e non ho incassato neppure un centesimo».
Gli investigatori lo consideravano uno stretto collaboratore delle grandi organizzazioni, ma questo cinquantenne cagliaritano non ha mai scambiato neanche due parole con un narcotrafficante. Non sa nulla delle rotte delle droga, non conosceva i destinatari (tanto meno i fornitori) di quel chilo e mezzo di cocaina che gli è costato sei mesi di carcere e altrettanti di arresti domiciliari.
Aspetta il processo (è già stato rinviato a giudizio) e racconta i cinque giorni alle dipendenze di una banda criminale, con un datore di lavoro mai visto in faccia. Ci incontriamo nella sala d'attesa del Servizio dipendenze della Asl: «Qui sto seguendo una terapia per lasciarmi alle spalle l'unica droga che mi ha intossicato: il gioco. Tutto è successo alla fine dell'estate scorsa: ero disperato e quel tizio che ho incontrato davanti al videopoker l'aveva capito benissimo. Forse si era informato prima.
Sapeva che ho una famiglia da mantenere e che da quando ero stato licenziato non avevo più il necessario per il pranzo. Con i videopoker speravo di svoltare: ero convinto, chissà perché, che prima o poi avrei sbancato. Invece, ci ho sempre rimesso il poco che avevo in tasca. Io non sono un narcotrafficante, la cocaina l'ho vista soltanto in televisione.
Non avevo visto neanche quella che portavo in auto. Sono andato a prenderla a Torino, in una zona che non saprei ritrovare. Mi hanno guidato fino al capannone ma mi hanno tenuto fuori. Hanno caricato tutto e mi hanno dato il via. Se raccontassi al giudice tutta la mia storia quasi certamente mi assolverebbe, ma non posso rischiare che quelli si vendichino. Di me sapevano tutto: sanno dove abito, conoscono i miei figli».
I DISOCCUPATI
Per trasportare la droga da una parte all' altra dell'Italia, dai grossi centri di smistamento alle regioni periferiche, le bande internazionali si avvalgono di disperati. Ingaggiano disoccupati che in un'assunzione regolare oramai non possono più sperare. Gente disposta a rischiare le manette pur di guadagnare in pochi giorni una somma che vale più o meno sei stipendi.
«I capi dell'organizzazione io non li ho conosciuti, non so se fossero italiani o stranieri. Ho accettato solo perché sognavo di poter fare la spesa senza l' aiuto della Caritas e di poter sfruttare una parte di quei 10 mila euro per pagare gli studi universitari di mia figlia».
Sfruttare manovalanza locale è una strategia che funziona bene. Disoccupati e cassintegrati offrono una garanzia doppia: sono volenterosi e soprattutto insospettabili. Per chi accetta, è un' alternativa (ben remunerata) agli ammortizzatori sociali.
«CONVINTO FACILMENTE»
«L'intermediario incontrato nella sala scommesse mi ha convinto facilmente, mi ha detto che anche altri compaesani l'avevano già fatto i viaggi e che tutto si era concluso senza rischi. Ci siamo visti solo due volte e mi ha dato tutte le istruzioni. Mi ha fornito anche i soldi per noleggiare un'auto e mi ha aspettato al porto di Genova. Mi ha accompagnato fino a Torino e mi hanno fatto arrivare in una zona industriale. Ho parcheggiato e ho aspettato fuori dal capannone, nel frattempo qualcun altro si è occupato di nascondere i panetti nel portapacchi.
Speravo che li avessero ben occultati, invece per i poliziotti è stato facilissimo trovarli.
Io sarei dovuto arrivare nella zona di Cagliari, avrei dovuto ritrovare l'intermediario all' ingresso della città: lui era tornato in Sardegna in aereo, io ho ovviamente viaggiato in nave.
Durante la notte non ho chiuso occhio, ero terrorizzato, fare la vita del criminale non fa per me. Temevo di essere seguito o che nel traghetto che ci potessero essere dei poliziotti. Invece mi hanno fermato sulla superstrada. Ora rischio di pagare per tutti, perché i boss dell' organizzazione non sono mai stati scoperti. Nel mio paese, la droga è sempre stata considerata un disonore, ma io cercavo solo un lavoro».
2 - QUANDO I PADRONI DELLA COCAINA SFRUTTANO LE VITTIME DELLA CRISI
Francesco La Licata per “la Stampa”
Il lettore più disincantato magari sorriderà scettico, ascoltando la storia che pubblica «La Stampa». Dubbioso fino all'incredulità sul fatto che possa esistere un corriere della droga arruolato alla carlona in una sala giochi di un piccolo centro cagliaritano: un corriere assolutamente estraneo alla grande associazione criminale che governo il traffico della cocaina.
Sembrerà impossibile ai più la vicenda vede protagonista un uomo senza precedenti penali eppure trovato in possesso di una discreta quantità di cocaina destinata al mercato della Sardegna. Eppure bisogna credere al racconto di quell' uomo disperato. Chi ha memoria ed esperienza dei meccanismi che permettono al grande crimine di sfuggire alle maglie della rete investigativa sa pure che spesso persone insospettabili finiscono per restare irretiti, per ingenuità, per sete di denaro o semplicemente per bisogno, da criminali professionisti.
Il protagonista della nostra storia, poi, sembra avere tutti i requisiti del perfetto «utile idiota»: disoccupato con figli a carico, squattrinato e per giunta schiavo del vizio del videogioco. Non a caso è stato avvicinato in una sala giochi, il luogo dove probabilmente stava più a lungo, essendo privo di impegni di lavoro e poco felice di stare in casa a guardare i propri figli affamati. Chissà da quanto tempo i padroni della coca lo stavano ad osservare, calcolandone i tempi di resistenza e la capacità a restare «integro». Non a caso si manifestano quando l'uomo ha visto liquefarsi gli ultimi dieci euro, ingoiati dalla vorace slot machine.
METODO MAFIOSO
Così si catturano le persone deboli, specialmente in una comunità chiusa, come può essere la provincia sarda. Non è una tecnica nuova né mai sperimentata. È una tecnica mafiosa, senza per questo voler dire che in Sardegna è sbarcata Cosa nostra siciliana. Il metodo è quello. In Sicilia il «vivaio» mafioso veniva tenuto sotto costante osservazione e la selezione era lenta e inesorabile. Oggi si va più per le spicce e gli arruolabili sono aumentati per via della crisi economica che produce più poveri e più disoccupati.
Tra i Settanta e gli Ottanta, a Palermo, Cosa nostra - quella italo-americana - utilizzò un esercito di casalinghe insospettabili per il traffico di eroina Sicilia-New York. Si trattava di tranquille signore non più giovanissime (per allontanare i sospetti) che venivano «vestite» con sacchetti di droga sotto gli abiti. Ovviamente quelle erano consenzienti, anche se completamente estranee all'organizzazione.
LE CASALINGHE NEGLI USA
Spesso partivano lasciando all'oscuro anche i rispettivi mariti. Il «premio», oltre al compenso pattuito, prevedeva una settimana di allegra vacanza newyorchese, completa di gigolò. Interrogate dopo l' arresto, quasi tutte ammettevano la colpa, giustificandosi: «Avevo bisogno di una nuova, bella, cucina all' americana».