Guido Santevecchi per corriere.it
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Prima del Covid-19 la Cina produceva 20 milioni di mascherine al giorno. Per uso ospedaliero, industriale e per la gente normale alle prese con il quotidiano inquinamento da polveri sottili. Quando è scoppiato il Coronavirus le autorità hanno prima consigliato e poi ordinato alla popolazione di indossare la maschera.
Con soli 20 milioni di pezzi al giorno e 1,4 miliardi di cittadini le maschere sono subito scomparse dai negozi cinesi, ci sono stati scandalosi aumenti di prezzo, gente spaventata che si copriva naso e bocca anche con le bucce delle arance e con bottiglie di plastica divise a metà.
Venti milioni di maschere pre-epidemia rappresentavano comunque la metà della produzione mondiale, ma allora in Occidente non ci abbiamo fatto caso. Il coronavirus era un problema cinese. Nel giro di pochissimi giorni molte fabbriche in Cina hanno dovuto raccogliere la sfida.
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La propaganda ha diffuso foto di operaie al lavoro per produrre manualmente maschere per gli eroici medici e infermieri anzitutto. Uno sforzo anche commovente mentre la Cina era in preda allo sgomento e imponeva la quarantena. Ma con centinaia di milioni di lavoratori bloccati dall’ordine di non tornare alle catene di montaggio, come produrre una quantità inesauribile di maschere usa e getta? I pianificatori dell’economia statale hanno mobilitato le grandi industrie automatizzate, comprese quelle ad altissima tecnologia, che hanno riciclato alcune linee di produzione.
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Oggi la Cina produce 120 milioni di maschere al giorno. Tra le industrie che hanno risposto agli appelli del governo c’è anche la Aviation Industry Corporation of China (AVIC) di Chengdu, specializzata nella costruzione dei caccia J-20 a tecnologia stealth, orgoglio dell’aeronautica militare. La tecnologia di precisione avionica permette a ogni macchinario di sfornare 100 maschere al minuto, 24 ore su 24. La fabbrica dei J-20 ha impiegato 258 ingegneri e tecnici nella risoluzione del problema: e a quanto pare in tre giorni è stata disegnata la prima linea d produzione.
Molte altre aziende di piccole e medie dimensioni, di quelle che prima facevano pannolini per bambini, sono state incoraggiate dalle autorità a lanciarsi nel segmento delle maschere protettive. Sarebbero almeno 2.500 le imprese impegnate al momento nella nuova produzione. Che il 29 febbraio aveva raggiunto quota 116 milioni di unità al giorno.
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Oltre quelle a bassa tecnologia e alto impiego di mano d’opera ci sono giganti come Foxconn, famoso per l’assemblaggio degli iPhone; Xiaomi e Oppo, specializzati in smartphone a basso costo. La Sinopec, gigante del petrolio, ha aumentato la produzione di materiali di base per le maschere professionali: dal polipropilene al polivinile. Gli esperti hanno segnalato che Xi Jinping nella prima uscita pubblica in maschera, a inizio febbraio, si era messo una comune mascherina di garza di quelle chirurgiche, usa e getta.
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Lunedì, quando è andato a Wuhan, il leader indossava una N95 di disegno americano, made in China. Dei 2.500 centri di produzione in Cina, 700 sono di industrie hi-tech che prima si dedicavano a tutt’altro. Uno sforzo da economia di guerra che ha precedente solo nel secondo conflitto mondiale. E ora che il peggio sembra passato sul fronte dell’epidemia in Cina — solo 8 nuovi casi registrati ufficialmente l’11 marzo a Wuhan ed è stato annunciato ufficialmente il superamento del picco con soli 11 decessi nelle ultime ore — le maschere cinesi sono pronte per l’esportazione. Solo in Italia siamo in attesa di due milioni di pezzi, in un contratto concordato da Luigi Di Maio con il collega di pechino Wang Yi.
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Al momento l’intesa sembra soprattutto un gesto di solidarietà politica da parte di Pechino, dopo le tensioni di gennaio quando Roma chiuse i collegamenti aerei diretti. Ma intanto Germania e Francia, che si preparano all’esplosione dell’epidemia, hanno bloccato le esportazioni, per non assottigliare le scorte indispensabili al mercato interno. Se davvero il coronavirus sarà arrestato in Cina, è possibile che il surplus di maschere venga esportato. Le maschere e le tute protettive possono diventare uno strumento di geopolitica ai tempi del Covid-19.
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