Massimo Gaggi per il “Corriere della Sera”
Da quando Kabul è caduta nelle mani dei talebani milioni di afghani terrorizzati cercano di cancellare le loro tracce digitali dai telefonini, dai computer, dal web. Panico comprensibile: in balia di radicali islamici che vent' anni fa avevano vietato perfino la musica, anche avere sullo schermo del cellulare solo il logo di Spotify può essere fatale. Ragazzi cresciuti nei vent' anni dell'occupazione americana, che sono anche i primi dell'era digitale, corrono a ritroso in una paradossale macchina del tempo cancellando dai loro apparecchi anni di messaggi, tutti i loro contatti, gli amici, le foto, i video, le canzoni.
È un lavoro immane, svolto con l'aiuto di organizzazioni umanitarie come Human Rights First che hanno messo in rete guide su come cancellare la propria identità digitale basate su un lavoro analogo fatto in passato per i ragazzi di Hong Kong che hanno cercato di resistere alla repressione cinese. Manuali scritti in inglese, arabo e farsi che molti non capiscono perché parlano altri dialetti. Aiutano attiviste pachistane dei diritti umani con traduzioni in lingua pashto e dari.
Sforzi commoventi, ma difficilmente basteranno a evitare di far scattare le trappole tecnologiche dei jihadisti: i talebani 2.0 che affermano di essere diventati più tolleranti con la modernità, di sicuro si sono modernizzati quanto a uso delle tecnologie digitali. Già cinque anni fa in un posto di blocco hanno controllato i passeggeri di un autobus usando uno strumento biometrico e ne hanno uccisi 12 identificati come collaboratori degli americani attraverso un database in loro possesso.
E a Kabul secondo voci difficili da verificare, i talebani stanno già facendo perquisizioni casa per casa usando strumenti simili. Nei vent' anni della loro occupazione gli americani non hanno solo cercato di esportare democrazia: hanno esportato anche la digitalizzazione di ogni aspetto della vita pubblica. Il che vuol dire impronte digitali, scannerizzazioni dell'iride e riconoscimento facciale per votare, diffusione capillare di carte d'identità digitali zeppe di dati dei cittadini compresi quelli della provenienza etnica, e altro ancora.
Come sempre nella cultura digitale della Silicon Valley - i problemi si affrontano solo quando si manifestano e montano le proteste - nessuno si è preoccupato di garantire in modo adeguato la sicurezza di queste banche dati. Solo che a Kabul, a differenza della California, queste sono questioni di vita o di morte. Gli americani hanno creato sofisticati sistemi informatici, affidandone poi la gestione al governo di Kabul: quello che si è liquefatto in poche ore meno di una settimana fa, lasciando database delicatissimi alla mercé dei nuovi padroni del Paese.
È per questo che tutti gli sforzi dei singoli di cancellare le tracce digitali rischiano di risultare vani: queste impronte sono ormai ovunque, negli archivi pubblici come nei file privati. E non basta cancellare la propria identità digitale dal telefonino: basterà una foto nella quale si compare a un evento di una ong per passare guai seri. Un cellulare senza dati, poi, rischia di essere considerato dai talebani un'autodenuncia. Per questo molti preferiscono distruggere fisicamente i loro apparecchi.
Ma questo è un lusso che molti non si possono permettere, una connessione col mondo che non possono perdere. Chi ha lavorato con gli americani è, poi, davanti a un dilemma: se cancella tutto per non finire nel mirino dei talebani non avrà più nulla per sostenere una richiesta di asilo negli Usa. Le associazioni umanitarie consigliano di fotografare i documenti, postarli su cloud (sperando che sfuggano all'intercettazione dei talebani) e bruciare gli originali cartacei.
HIIDE potrebbe diventare il simbolo dell'insipienza tecnoburocratica americana: la sigla identifica un sistema di terminali mobili per l'dentificazione dei cittadini creato da varie agenzie del governo Usa. Sono stati usati di villaggio in villaggio e contengono i dati biometrici e anche note biografiche degli abitanti. Secondo il sito The Intercept , americani e afghani in fuga hanno lasciato alcuni di questi strumenti nelle mani dei talebani. La speranza è che non li sappiano usare, il timore è che vengano aiutati da tecnici pachistani.