"E' STATO INGIUSTAMENTE BOLLATO COME TRADITORE E PREZZOLATO" - PARLA LA FIGLIA DI SILVANO GIROTTO DETTO “FRATE MITRA”, MORTO GIOVEDÌ A 82 ANNI, CHE SI INFILTRO' NELLE BRIGATE ROSSE FACENDO ARRESTARE I FONDATORI DELLE BR, RENATO CURCIO E ALBERTO FRANCESCHINI – “LA NARRAZIONE DI QUEL PERIODO È STATA SEMPRE SBAGLIATA E LO HA FATTO SOFFRIRE MOLTO. DECISE DI TESTIMONIARE AL PROCESSO E NON HA MAI AVUTO LA SCORTA..."

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Massimo Massenzio per il “Corriere della Sera”

 

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«Ho sempre saputo che mio padre aveva avuto una vita speciale, ma la verità sul suo passato l'ho conosciuta solo a 19 anni». Daniela, figlia maggiore di Silvano Girotto, era appena nata quando «Frate Mitra», infiltrato per conto del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, riuscì a far arrestare i fondatori delle Br, Renato Curcio e Alberto Franceschini. Un evento che cambiò la storia d'Italia e la vita dell'ex missionario francescano, morto giovedì a 82 anni.

 

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Figlio di un maresciallo dei carabinieri, Girotto aveva avuto un'adolescenza turbolenta, conoscendo prima il riformatorio e poi il carcere. In mezzo, ancora minorenne, si era arruolato per tre mesi nella legione straniera francese, ma tornò in Italia inorridito. In cella avvenne la sua conversione e Girotto abbracciò l'ordine francescano. Dopo qualche esperienza pastorale, andò in una missione in Bolivia e si ritrovò nel mezzo di un golpe militare. 

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Decise di unirsi ai ribelli, guadagnandosi il soprannome di «Frate Mitra» e l'espulsione dall'ordine francescano. In Bolivia conobbe Carmen, la donna che poi avrebbe sposato nel 1973, in Cile, dove fu ferito e poi rimpatriato in Italia. Qui iniziò il terzo capitolo della sua vita, segnata dal suo contributo alla cattura dei capi storici delle Brigate Rosse.

 

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«La narrazione di quel periodo è stata sempre sbagliata e lo ha fatto soffrire molto. Per anni è stato bollato come "traditore" e perfino "prezzolato" - racconta Daniela Girotto -. Tutte fantasie. Quando pensava che una cosa fosse giusta la faceva. Punto. Senza retropensieri». Fu così che l'ex frate di sinistra, che aveva abbracciato la guerriglia in Sud America, iniziò a collaborare con i carabinieri, convinto che la lotta armata fosse ancora evitabile e non necessaria. 

 

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Ebbe diversi incontri con Curcio, alcuni «a torso nudo» perché i brigatisti volevano essere sicuri che non avesse addosso un registratore. L'8 settembre '74, a Pinerolo, nel giorno del reclutamento ufficiale di Girotto, Curcio e Franceschini vennero arrestati. «Mio padre sosteneva che sarebbe potuto andare avanti e "consegnarli tutti", ma le cose andarono diversamente. Decise comunque di testimoniare al processo e non ha mai avuto la scorta. Ha tolto semplicemente il nome dal citofono e dall'elenco telefonico. Quando gli chiedevo perché, mi rispondeva "perché sì"».

 

Nell'estate del 1993, però, ci fu la rivelazione: «Avevo finito il liceo e stavo per partire per un anno sabbatico prima dell'università - ricorda la figlia di Frate Mitra -. Eravamo in cortile, mi fece sedere e mi disse "adesso ti racconto". Così ho saputo che mio padre era stato frate e tante altre cose. Fui meravigliata, ma da subito orgogliosa di un padre che aveva fatto la cosa giusta. Leggendo libri e giornali dell'epoca ho invece capito il dolore di mio padre, quella sofferenza che lo ha divorato da dentro».

 

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La vita «normale» di Girotto era quella di un pendolare, elettricista, che ogni mattina prendeva il treno. Fino al 1982 nessuno gli ha offerto un lavoro a Torino e nel 2002 la lunga lettera scritta alle figlie Daniela e Federica si trasformò nell'autobiografia «Mi chiamavano Frate Mitra», suo testamento spirituale.

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 «Quel libro è stato catartico per lui, ha ricominciato a vivere e finalmente la gente ha iniziato a guardarlo con occhi diversi. Forse ci voleva un po' di distanza storica». Ieri è stato il momento dell'ultimo saluto a Girotto, con un funerale laico al tempio crematorio: «La sua religiosità era forte, ma molto personale. Vissuta in modi diversi a seconda dei differenti momenti della sua vita. Non era più legato alla Chiesa come istituzione». 

 

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Dopo la pubblicazione del libro ha vissuto per 13 anni in una missione in Etiopia con la moglie Carmen e poi ha fatto la spola fra la Bolivia e Torino, prima di trasferirsi stabilmente nel quartiere Campidoglio dopo l'inizio della pandemia: «Per 49 anni sempre insieme a mia madre, che per farci andare all'università si era rimessa a studiare e aveva preso il diploma da infermiera - dice Daniela -. È stato un marito, un padre e un nonno molto presente. Un esempio e uno stimolo per me, anche quando discutevamo. Cosa mi mancherà di più di lui? Tutto, era mio padre».

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