Francesca Pierantozzi per “il Messaggero”
Bahia Bakari ricorda tutto. Forse perché era il suo primo volo in aereo: ricorda l'eccitazione di salire a bordo, i vestiti messi nei bagagli per andare al matrimonio del nonno alle Comore, ricorda la partenza da Parigi, sua madre seduta accanto a lei, il primo scalo a Marsiglia poi il secondo a Sana' a, nello Yemen, ricorda quell'aereo un po' vecchio («Ma non cadeva a pezzi e poi nessuno sembrava preoccuparsi quindi mi sono detta che doveva essere normale»), poi ricorda quella sensazione strana «come di una scarica elettrica» e il balzo, «mi sono sentita volare», il boato, l'esplosione, poi il buio e l'acqua dell'oceano.
LE VITTIME
È questo che si prova quando l'aereo su cui si vola precipita e si schianta sull'acqua. Quella notte, tra il 29 e il 30 giugno 2009, Bahia fu la sola superstite dell'incidente del volo IY626 della Yemenia Airways, precipitato poco prima dell'atterraggio a Moroni, capitale delle Comore. Morirono 152 persone, tutti i passeggeri a bordo tranne una, una ragazzina di dodici anni.
Oggi Bahia vive a Parigi (è nata nella banlieue orientale, come sua sorella e i suoi due fratelli, suo padre è comoriano, come lo era sua madre) lavora come agente immobiliare, è una bella donna di 25 anni, non ha praticamente nessuna cicatrice, la clavicola e il bacino sono tornati a posto, anche l'occhio, che era rimasto ferito, non ha subito lesioni gravi.
«La ferita più dolorosa è la perdita di mia madre» ha detto ieri al tribunale di Parigi. L'aula era gremita per ascoltare la sua testimonianza, nel processo che si concluderà il 2 giugno contro la compagnia Yemenita accusata di «omicidio involontario». I rappresentanti della compagnia non sono presenti sul banco degli imputati, la difesa ha parlato di «impedimenti causati dalla situazione di guerra civile nello Yemen», ma gli esperti che si sono succeduti davanti alla corte nei giorni scorsi sono tutti d'accordo: l'incidente non è stato causato né da un fulmine, né da un missile, ma da una serie di «incredibili» errori da parte dei piloti, che hanno svolto manovre «incoerenti» e mostrato una manifesta incompetenza.
Per Bahia era il primo volo, aveva dodici anni: gli altri passeggeri le avevano detto che quei sussulti dell'aereo quando ormai era quasi arrivato il momento di atterrare erano normali, che si chiamavano «turbolenze». Lei ricorda di aver allacciato le cinture, ricorda la hostess che passa a verificare con un sorriso, e poi la fine. «Quando mi sono ritrovata nell'acqua, non ero più legata».
Si aggrappa a un pezzo di lamiera dell'A310 e non la molla più. C'è un forte vento, le onde dell'oceano sono alte, lei non le vede ma le sente. Sente anche «voci intorno a me che chiedevano aiuto, voci di donna». Ma dopo qualche ora più niente, il buio e il silenzio. Si addormenta per un po', restando sempre attaccata al relitto, e quando si sveglia è convinta di essere caduta dall'aereo ma che gli altri sono arrivati a destinazione. Una barca arriva in quel momento: la raccoglie.
LO SCHIANTO
Lo schianto fu talmente terribile che solo una parte dei corpi furono recuperati e identificati. «C'era anche quello di mia madre», ha detto ieri Bahia. Passò 20 giorni in ospedale al suo ritorno a Parigi: «Due anni dopo ripresi l'aereo, per andare sulla tomba di mia madre, è stata sepolta alle Comore, per me era fondamentale tornare». «Non ho nessuna conseguenza fisica dell'incidente, ma è stato molto difficile per me accettare di essere l'unica sopravvissuta» ha detto ieri in lacrime, davanti ai parenti delle vittime, anche loro commossi.
«Ho dovuto riaprire la scatola dei ricordi, ma questo processo è un sollievo per me ha aggiunto avrei solo voluto che i rappresentanti della compagnia aerea fossero qui, ad ascoltare me e i parenti delle vittime. Avrei voluto delle scuse, ma soprattutto delle spiegazioni. Avrei voluto sentire più rispetto. So che si parla sempre di me, della ragazzina sopravvissuta allo schianto di un aereo, e si dimentica che quella notte morirono 152 persone».