Andrea Galli per www.corriere.it
Martedì, l’errore fatale dell’amante-complice: una telefonata a un balordo per parlare di documenti falsi (lasciando intendere nel linguaggio in codice la nazione della consegna), e la conversazione caduta nella fitta e strategica trama di numeri sotto intercettazione dalla polizia penitenziaria; sabato, la fine della latitanza di Massimo Riella, catturato in Montenegro quand’era prossimo, grazie all’aiuto della donna, a cambiare identità.
La fuga del 48enne, durata quattro mesi e conclusasi in un appartamento della capitale Podgorica (girava in bici, percorreva chilometri), era da subito diventata una caccia investigativa nonché una saga corale e mappa di misteri. Misteri che permangono. In attesa che parli con i magistrati, nessuno pare saper ricostruire come dalle montagne sopra Como, dove si era rifugiato dopo l’evasione del 12 marzo, Riella abbia raggiunto il Montenegro.
Le trappole nei boschi
Risultano fin qui le seguenti coordinate: quella casa teatro del blitz delle forze dell’ordine indirizzate al covo dai carabinieri di Como del colonnello Ciro Trentin, rimanda a un uomo che aveva accettato di nascondere Riella, sembra collegato a giri di amicizie nate nei periodi di detenzione; le procedure dei documenti contraffatti erano partite grazie a un anticipo di soldi che l’ex fuggiasco potrebbe aver ricevuto mentre si nascondeva sui bricchi lombardi, da parte dei familiari o dei compaesani, magari quelli che l’avevano rifornito di cibo, coperte, biancheria intima, birra, cioccolato e stecche di Marlboro; in verità, gli investigatori non erano certi che Riella avesse lasciato l’Italia, tanto che loro avevano posizionato sugli alberi numerose foto-trappole, casomai il ricercato transitasse da quelle parti e fornisse precise tracce geografiche; l’amante-complice potrebbe essere sia una figura nuova sia un’antica conoscenza di un uomo noto per le molteplici, sovrapposte e sovente caotiche relazioni sentimentali.
La tomba della mamma
Già imprenditore edile che rubava il parquet ai concorrenti, incarcerato a dicembre per la rapina a due anziani che giura di non aver commesso, Riella era scappato approfittando di un permesso premio nella natale Brenzio, sopra Dongo. All’epoca, chiedeva da giorni di poter pregare sulla tomba della mamma Agnese, deceduta da poco; aveva perorato l’istanza con le buone, ma poi, rivelando il suo vero animo — per citare il padre, «è mezzo matto, mi ha sempre combinato casini» —, Riella s’era arrampicato sul tetto del penitenziario minacciando tragici epiloghi.
Trattativa. E accordo. Cinque agenti l’avevano accompagnato al cimitero, avevano aperto la portiera del furgone ma lui, senza manette, aveva tirato calci e iniziato a correre. Una saetta. Aveva depistato i cani specializzati nel braccare le prede.
Ancor prima di domandargli del Montenegro, il papà dice: «Non so niente. Niente! Ma almeno è salvo!». Quando tornerà in Italia? Gli uffici del ministro della Giustizia Marta Cartabia contano un’estradizione ogni sei giorni, comprese nazioni sulla «lista nera» e criminali di spessore internazionale. L’ultimo arrivato è il broker dei narcos e uomo di ’ndrangheta Rocco Morabito.
In confronto Riella è mera comparsa. Forse anche meno. Eppure, fumatore incallito e non un ragazzino, ha resistito a lungo in condizioni avverse. Merito, ripetono in famiglia, di un professore delle medie: un frate che se ne fregava dei libri e si portava dietro lo spirito libero Massimo. Lezioni nella natura di tecnica di bracconaggio, allenando la capacità di sorprendere, di giorno e perfino di notte, ogni sorta d’animale selvatico.
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