LA REALTÀ? MA PER CARITÀ! – IL PROGETTO ESTREMO “DEEP TIME” CHE HA SPEDITO 15 PERSONE IN UNA CAVERNA SUI PIRENEI SENZA LUCE, NÉ CONTATTI CON L’ESTERNO PER 40 GIORNI: LA MISSIONE SERVIVA AGLI STUDIOSI PER INDAGARE GLI EFFETTI DELLA PERDITA DELLA COGNIZIONE DEL TEMPO SUL CERVELLO E SUL FISICO – MA DOPO SEI SETTIMANE I VOLONTARI RITORNATI IN SUPERFICIE HANNO CHIESTO DI POTER RIENTRARE: “LA VITA FUORI È TROPPO FRENETICA…”

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Francesco De Martino per "il Giornale"

 

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Vivere in una grotta, al buio, sottoterra, per quaranta giorni. Senza orologi, telefoni e social per condividere i momenti online. Solo con beni di prima necessità. E scegliere di farlo per amore della scienza. Quindi no, non si tratta di pura follia e nemmeno di un nuovo tipo di lockdown rafforzato per combattere il Covid-19.

 

È un progetto, «Deep Time», voluto dagli studiosi francesi dello Human Adaption Institute per indagare i particolari effetti della totale perdita della cognizione del tempo sul cervello e sul fisico umano. A fare da «cavie» sono stati quindici volontari, otto uomini e sette donne, tra i 27 e i 50 anni. Sono usciti ieri dalla caverna di Lombrives, sul versante francese dei Pirenei, accolti dagli applausi, dopo una lunga convivenza di sei settimane. E non sembrano nemmeno poi così delusi dall'esperienza vissuta, ma hanno un'aria soddisfatta.

 

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Sono solo storditi e affaticati dal vedere la luce del sole tanto che tutti hanno dovuto portare all'uscita dalla grotta gli occhiali con le lenti scure. In molti si sono mostrati addirittura dispiaciuti di ritornare alla vita normale. Una volontaria, Marina Lançon, 33 anni, ha ammesso: «È stato come mettere in pausa la mia vita, sarei rimasta volentieri qualche giorno un più lontana dagli smartphone e dalla quotidianità».

 

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Il problema del fuori? Un ritorno «troppo brutale» alla vita di tutti i giorni, fatta di connessioni, frenesia e continue scadenze. Senza impegni quotidiani e senza figli intorno, spiega un altro partecipante, la sfida era «trarre profitto dal momento presente senza mai pensare a cosa accadrà nella prossima ora o due ore». Una volta usciti all'aria aperta, due terzi dei partecipanti hanno espresso il desiderio di rimanere sottoterra più a lungo. I volontari hanno dormito in tenda a una temperatura di dieci gradi e con un umidità relativa del 100%.

 

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Nella grotta avevano pochi aiuti moderni a disposizione per la sopravvivenza. Hanno prodotto da soli l'elettricità con una bicicletta a pedali, e per bere e lavarsi hanno dovuto prendere l'acqua da un pozzo a 45 metri sotto terra. A scandire le loro giornate non c'è stata nessuna lancetta d'orologio, l'unico modo per gestire compiti e mansioni è stato basarsi sui ritmi del loro organismo e dei propri cicli di sonno. I partecipanti, prima di iniziare la missione, hanno dovuto superare delle prove fisiche e psicologiche. L'attività cerebrale e le funzioni cognitive sono state analizzate prima che entrassero nella grotta, per poterli confrontare ai risultati dopo l'uscita.

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 Poi sono stati preparati alla vita che avrebbero dovuto affrontare nella caverna. Pochi di loro avevano già dimestichezza con corde, imbraghi e moschettoni. E hanno dovuto imparare ad usarli per muoversi in totale sicurezza in un ambiente ostile. I ricercatori hanno monitorato i partecipanti in tempo reale attraverso dei sensori che hanno fatto indossare loro prima dell'ingresso a Lombrives.

 

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Non erano mai stati fatti esperimenti di questo tipo e con un budget di 1,2 milioni di euro. È stato definito «il progetto più estremo di sempre» proprio perché, quelli provati in passato, sono stati tutti focalizzati sullo studio dei ritmi fisiologici del corpo umano e non sulla rottura totale della percezione del tempo e delle funzioni emotive sul comportamento. «Quello che ho notato è che il tempo nella grotta sembra procedere lentamente», ha dichiarato Clot. Uno studio azzeccato dato il momento di pandemia da Coronavirus, in cui ci siamo ritrovati all'improvviso a fare i conti con un altro tipo di isolamento, seppur duro per tutti.

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