SAPEVATE CHE L’ITALIA HA DATO 39 MILIARDI DI EURO PER LA RIUNIFICAZIONE TEDESCA? - MILENA GABANELLI FA I CONTI DEL COSTO DELLA CADUTA DEL MURO DI BERLINO: NEL 1991 IN GERMANIA FU INTRODOTTA UNA TASSA DEL 5,5% PER FINANZIARE LA RICOSTRUZIONE. MA SIAMO SICURI CHE ABBIA FUNZIONATO? LE GRANDI IMPRESE CONTINUANO A STARE A OVEST, MENTRE NELL’EX DDR L’ESTREMA DESTRA E I NEONAZISTI VOLANO - VIDEO

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MILENA GABANELLI E I COSTI DELLA RIUNIFICAZIONE TEDESCA DOPO LA CADUTA DEL MURO

 

Milena Gabanelli e Danilo Taino per “Dataroom - Corriere della Sera” 

 

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Quel tardo pomeriggio, mentre il Muro cadeva e Angela Merkel faceva la sauna settimanale, nessuno pensava alla produttività, alla disoccupazione, alla crescita dell’economia. Era il 9 novembre 1989, le ombre della sera erano già calate su Berlino, a Ovest e a Est, la barriera di mattoni, filo spinato e nidi di mitragliatrice che dal 13 agosto 1961 aveva spezzato la città si sgretolava. Il pensiero dei berlinesi e di tutto il mondo era per la vittoria della democrazia. Oggi sappiamo però che si apriva la lunga stagione, per la Germania socialista, della rincorsa per imitare e diventare uguale alla Germania dell’Ovest, democratica, capitalista, ricca.

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Il prezzo della riunificazione si paga ancora oggi

All’inizio degli anni ‘90, i Länder della Ddr erano arretrati di decenni rispetto a quelli occidentali, per standard di vita, infrastrutture, capacità produttive, libertà di ricerca, innovazione, imprese capaci di stare sui mercati. Alla promessa di Kohl di elevare gli standard di vita al livello di quelli dell’Occidente non si può dire che non seguirono i fatti: ed è proprio qui che iniziano parecchi guai. Con atto di generosità tutta politica, Kohl decise, contro il parere di quasi tutti gli economisti, di trasformare i marchi dell’Est in marchi dell’Ovest alla parità, quando i primi avevano un valore inferiore.

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Nel 1991 fu introdotta la Solidaritätszuschlag – Soli –, una tassa del 5,5% sul reddito di tutti i cittadini tedeschi per finanziare la ricostruzione dell’Est. Di recente è stata ridotta (ma nel 2018 ha raccolto ancora 18,9 miliardi di euro) e nel trentennio ha finanziato uno spostamento di risorse da Ovest a Est per almeno duemila miliardi.

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Nel giugno 1990, fu fondata la Treuhandstalt, alla quale fu dato il compito di ristrutturare 8.500 imprese di Stato della Ddr, con oltre quattro milioni di dipendenti. Furono privatizzate le caserme, le proprietà dei partiti, le case popolari, 2,4 milioni di ettari di terreni agricoli e foreste. In parallelo, partì un grande piano di infrastrutture che ha portato i Länder orientali ad avere strade, ferrovie, ponti, parchi, a rinnovare il 65% del patrimonio abitativo e all’eliminazione del 95% delle emissioni di anidride solforosa, delle quali la Ddr era il primo emettitore europeo.

 

Il contributo dei capitali italiani

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Uno sforzo gigantesco, al quale hanno contribuito investimenti non solo tedeschi, attratti dalle opportunità create dalla riunificazione e dalla ricostruzione. Dal 1991 alla fine del ‘98 – secondo l’elaborazione su dati di fonte Bundesbank elaborati dall’economista Roberto Violi – affluirono verso la Germania investimenti esteri per 1.247 miliardi di euro. Di cui 371 miliardi provenienti dai Paesi che avrebbero poi costituito l’Unione monetaria. Per quel che riguarda l’Italia, in quegli otto anni contribuì complessivamente con 39, 6 miliardi.

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Il crollo dello Sme

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Va ricordato che una conseguenza della riunificazione fu la crisi del Sistema monetario europeo (Sme) del 1992, che colpì in particolare lira e sterlina. «L’alta domanda pubblica e privata di capitali – scrisse il famoso economista Hans-Werner Sinn a metà Anni Novanta – fece aumentare i tassi d’interesse tedeschi rispetto a quelli di altri Paesi, incrementò l’attrattività del marco tedesco come moneta d’investimento e creò una forte pressione affinché si apprezzasse». Lo Sme, che stabiliva parità valutarie tra i Paesi europei, non resistette, il marco tedesco si rivalutò e la crisi politica che ne seguì diede una spinta decisiva alla moneta unica, già prevista nel Trattato di Maastricht del febbraio 1992. Le cancellerie europee, infatti, timorose della forza aumentata della Germania unita, avevano dato il via libera alla riunificazione proprio in cambio della rinuncia, da parte della Germania, alla sovranità monetaria.

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Germania trent’anni dopo

In questo quadro i Länder orientali affrontano la corsa per colmare il divario con quelli occidentali: il deutschmark diventato fortissimo, le ristrutturazioni aziendali e i salari aumentati non rispondono alla realtà sul terreno, dove ogni cinque posti di lavoro, quattro scompaiono. L’industria manifatturiera è sostituita dai trasferimenti pubblici e dai nuovi investimenti, i quali però impiegano tempo a ricostruire un’economia. Intanto inizia l’emigrazione: un milione e novecentomila persone se ne vanno da Est a Ovest, i piccoli centri e le campagne spesso si spopolano, soprattutto le ragazze se ne vanno. Alcune città, come Lipsia e Dresda in Sassonia, partecipano alla ricostruzione con spirito imprenditoriale, e sono nate imprese ad alta tecnologia, altre zone rimangono ai margini.

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Le grandi imprese stanno sempre a Ovest

Certo l’economia della ex Ddr non è mai stata così robusta, ma l’allineamento segna il passo. Ad esempio, a Est non ha il quartier generale nessuna delle trenta maggiori aziende tedesche quotate al Dax30. E delle 500 imprese più grandi della Germania, solo 37 sono basate nei Länder orientali, 17 se si esclude Berlino. Insomma il cuore economico tedesco continua a battere a Ovest. I due pezzi di Germania sono più simili, ma gli indicatori economici, sociali, culturali e politici raccontano che le differenze sono rimaste, nonostante l’enorme trasferimento di risorse, e che da una quindicina d’anni il processo di convergenza si è fermato.

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Terreno fertile per la destra estrema

È in questa situazione di chiaro e scuro che maturano le insofferenze e le differenze politiche, che potrebbero diventare un problema serio per l’intera Germania: a Est, i partiti di estrema destra hanno raggiunto il 25% dei consensi.

 

Per ragioni economiche e sociali, ma forse anche per qualcosa di più complesso che si accende nella mente di chi deve sempre imitare, in questo caso l’Occidente. «Gli imitatori non sono mai persone felici – ha scritto il presidente del Centro per le strategie liberali di Sofia Ivan Krastev – Non possiedono mai il loro successo, possiedono solo i loro fallimenti».

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