Lorenzo Giarelli per il “Fatto quotidiano”
Barili di caffeina riversati nelle fogne. Stragi di San Valentino (o di Pasquetta?) per una partita di chicchi di caffè. Tipacci con le ghette ai piedi pronti ad accoltellarsi per un cappuccino in tazza grande. Non sarà il proibizionismo degli Anni Ruggenti, ma quest' aria da commedia americana - a voler trovare del grottesco in queste tristi settimane - crea paradossi degni di Billy Wilder.
Tanto che le cronache italiane si riempiono di testimonianze su bar e pasticcerie che di straforo, senza farsi sentire né vedere, allungano ai clienti gli agognati caffè nonostante il divieto assoluto stabilito dalla legge.
E così la setta dei cappuccini proibiti placa una delle astinenze più feroci per il Paese. Dove? Quando? In genere bisogna affidarsi ai bar-tabacchi, già aperti in quanto tabacchi ma con l' ordine di non funzionare come bar. Ma insomma, un caffè che sarai mai, e allora se il cliente è fidato capita che dopo il pacchetto di sigarette si strizzi l' occhio: "Non è che mi fai uno schiumatino?".
A Roma ci casca il bar di una piazza a pochi metri da una delle più note attrazioni turistiche, che però in questi giorni non attrae né visitatori né clienti. Nel deserto silenzioso della Capitale, se non ci sono pattuglie all' orizzonte, il vecchio rituale dell' espresso si perpetua.
E non è un caso isolato. A Villa Convento (Lecce) un bar-tabacchi è stato chiuso per 5 giorni dopo che gli agenti avevano scoperto lo spaccio sottobanco di caffè: entrati nel locale, non avevano trovato nessuno, ma la macchinetta sporca e gli evidenti segni di recente utilizzo hanno colto i titolari senza una scusa pronta. A Pescara invece il fattaccio avveniva di notte: a inizio aprile la Guardia di Finanza ha scovato un bar che alle 3 e mezza ante meridiane offriva da bere e da mangiare ai nottambuli, forse colpiti da insonnia o stufi della compagnia domestica. Vista l' ora, facile ipotizzare come minimo un caffè corretto.
Ben diverso, ma ancor più sofferente, lo spirito dei molti che invece hanno violato l' isolamento per pregare in compagnia. Con la complicità dei parroci, si intende. A Fano (Pesaro) durante la domenica delle Palme i fedeli si sono radunati in chiesa grazie a un intenso tam-tam via social e Whatsapp. A Filadelfia (quella in provincia di Vibo Valentia, lasciando stare Rocky) è successa la stessa cosa, ma qui don Giovanni ha minimizzato: "Erano tutti autorizzati tranne tre persone. Avevo dimenticato la porta aperta". E poi, come dice lui, "faccio il prete, non il vigile".
Sarà per lo stesso principio che molti professionisti, stufi della quarantena e della chiusura forzata, si sono dati al lavoro a domicilio.
Non proprio quel che Giuseppe Conte auspicava parlando di "telelavoro", ma deviazione prêt-à-porter per nulla consentita - e pure pericolosa - di manicure, trucco, messa in piega, cerette e quant' altro.
Diverse sono infatti le segnalazioni di parrucchieri e estetisti all' opera da casa. A Massa, Cristina Mazzoni, presidente della Cna Benessere locale, ha rilanciato sui social una foto scattata da una estetista locale, che su Facebook si era vantata di aver fatto le unghie a casa a una cliente: "Ma le hai fatte oggi?", le chiedeva qualcuno, come fiutando che ci fosse qualcosa di anomalo; "Sì, ma ovviamente ero attrezzata dalla testa ai piedi, mascherine e guanti. In più tornando a casa ho tolto subito le scarpe".
Segnalazioni simili ci sono state pure a Bari, a Firenze (sempre dalla Cna locale) e a Napoli. A Chieti un barbiere è stato beccato dai carabinieri appena uscito dalla casa di un cliente: nella valigetta d' ordinanza c' erano le armi del delitto e il dna della vittima, eccezionalmente sotto forma di forbici, rasoio e capelli.
Vicino a Reggio Emilia Francesco Costi, proprietario dell' omonimo negozio di parrucchieri, ha persino girato un video su Facebook per denunciare il giro clandestino a domicilio. E al Fatto conferma: "Pure io ho ricevuto chiamate e non solo dai miei clienti. Volevano che andassi da loro o che venissero qui. Ovviamente ho detto di no: il problema non è solo quello di lavorare in nero o di fare concorrenza sleale, ma è soprattutto sanitario.
Se inizio a girare le case di tutti quelli che hanno bisogno, c' è il pericolo di diffondere il contagio".
Conscio di questa paura diffusa, un cinquantenne torinese dalla spiccata etica protestante (laddove intesa come spirito del capitalismo) si era invece ingegnato per lucrare sui timori della gente: rubando le mascherine scadute dai magazzini della sua azienda, le aveva poi rivendute porta a porta a cittadini indifesi, garantendosi una buona cresta. Tradito forse dalla scarsa qualità del prodotto, il suo sogno imprenditoriale si è interrotto nelle grigie pagine di una denuncia alla Guardia di Finanza.
senza estetista estetista in casa 2