SOLDI IN NERO, INVESTIMENTI SBAGLIATI E SPERICOLATE OPERAZIONI FINANZIARIE – COSA C’E’ DIETRO LA STRAGE COMPIUTA DA ALESSANDRO MAJA CHE HA AMMAZZATO MOGLIE E FIGLIA – L’UOMO AVEVA FIRMATO UN ACCORDO CON LA MOGLIE (CHE AVEVA LA MAGGIORANZA DELLE QUOTE DELLA SOCIETÀ DI DESIGN D’INTERNI) PER COSTITUIRE UN FONDO PATRIMONIALE – “ALLA FAMIGLIA TUTTI GLI UTILI DELL’AZIENDA” – MA L’ARCHITETTO ASSASSINO ERA CONVINTO CHE IN FAMIGLIA SI SPENDESSE TROPPO E PROSPETTAVA UN FUTURO DI POVERTA’. PER QUALE MOTIVO? LA DONNA VOLEVA SEPARARSI…
 

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Andrea Galli per corriere.it

 

ALESSANDRO MAJA ALESSANDRO MAJA

Il 31 gennaio 2018, Alessandro Giovanni Maja e la moglie Stefania Pivetta firmarono un atto nell’ufficio di un notaio di Gallarate. I coniugi, che si erano sposati nel 1992 in regime di separazione dei beni, dichiararono di costituire un fondo patrimoniale «destinando a far fronte ai bisogni di famiglia» la società di Maja (in realtà la maggioranza delle quote apparteneva alla stessa moglie).

 

Nella notte tra martedì e mercoledì, l’architetto-imprenditore ha ucciso sia Stefania sia la figlia di 16 anni Giulia, e ferito il primogenito Nicolò, 23 anni, che rimane ricoverato in prognosi riservata, con mille dubbi legati alle condizioni neurologiche.

 

L’interrogatorio rinviato e gli uffici sequestrati

nicolò maja nicolò maja

Gli uffici dell’azienda sul Naviglio Pavese a Milano sono stati sequestrati dai carabinieri su ordine della Procura, che ha disposto il prelievo di computer e documenti. In attesa che il killer racconti le proprie verità (rinviato l’interrogatorio di garanzia essendo lui in un letto di psichiatria), gli inquirenti insistono nella ricerca di eventuali segreti di Maja, 57 anni, uno in più di Stefania: potrebbero esserci state spericolate operazioni finanziarie, prestiti esterni alle banche, investimenti sbagliati con le persone sbagliate. Gente che magari non perdona, che avrebbe minacciato, che incalzava garantendo imminenti punizioni.

 

Già acclarato dagli accertamenti il sostanzioso giro di «nero» che caratterizzava il lavoro di Maja, ristrutturatore e interior design specie di locali (con un costante aumento di clienti della comunità cinese), bisogna ricordare che la lettura delle carte ufficiali della società nulla ha svelato. I conti erano in ordine. L’unica perdita ammontava a 16mila euro e si riferiva alla morosità di inquilino in affitto in una delle case di proprietà dell’azienda, il cui nome è «Jam e Vip srl».

 

L’ossessione dei soldi e il fondo di famiglia

stefania pivetta, moglie di alessandro maja stefania pivetta, moglie di alessandro maja

Nell’atto dal notaio nel 2018, vanno sottolineati alcuni passaggi inerenti quel fondo patrimoniale di Maja e Stefania, uccisa (come Giulia) nel sonno e colpita da un cacciavite «azionato» contro viso e testa da un martello. Ebbene, «nei confronti della “Jam e Vip srl”» marito e moglie «vengono delegati ed autorizzati a riscuotere gli utili di pertinenza delle rispettive quote di partecipazione, fermo restando che detti utili dovranno, comunque, essere utilizzati per i bisogni della famiglia». 

 

Proprio quella sua famiglia nell’ultimo periodo ossessione di Maja, convinto che moglie e figli spendessero troppo nonostante gli enormi problemi. Quali di preciso lo s’ignora, forse perché l’architetto-imprenditore, uno poco loquace e assai diffidente, non l’aveva mai detto, pur ribadendo che bisognava risparmiare, spesso esagerando nei toni e nei modi. Specie Stefania era ormai appesantita da una profonda stanchezza, che l’aveva portata a considerare la separazione, parlandone con le amiche.

 

la figlia giulia massacrata da alessandro maja la figlia giulia massacrata da alessandro maja

Dopodiché, discorsi sul tema dei presunti ammanchi di denaro (Maja prospettava un futuro di estrema povertà) non entravano nemmeno nell’intimità della villetta a Samarate, 16mila abitanti in provincia di Varese: ovvero l’abitazione a due piani, con box e piccola piscina nel giardino, scena del crimine e della recita dell’architetto-imprenditore che ha finto di togliersi la vita bruciandosi un sopracciglio con un cerino. Prima di uscire in mutande sul balcone urlando: «Finalmente ci sono riuscito». Salvo poi, negli accompagnamenti tra l’ospedale e il carcere, il carcere e l’ospedale, mormorare: «Li ho uccisi io, sono un mostro».

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