Francesco Grignetti per “la Stampa”
SILVIA ROMANO CON IL GIUBBOTTO ANTIPROIETTILE
È stata una lunga corsa a ostacoli, la liberazione di Silvia Romano, ad opera di una cellula dei servizi segreti che si era trasferita in Kenya 48 ore dopo il rapimento, sperando di chiudere subito la partita assieme alle forze di polizia locali e con droni potenti, proseguita poi in Somalia per quasi un anno e mezzo. Una corsa che non s' è mai interrotta neppure tra silenzi, inganni e false piste.
Era l' agosto dell' anno scorso, per dire, quando agli uomini dell' intelligence italiana a Mogadiscio arrivò un video. Una sorta di pizzino di un minuto scarso. Silvia Romano diceva poche parole, aria smunta. Sul momento sembrò che il sequestro fosse sul punto di concludersi. Invece no; quella pista si rivelò vana. Gli agenti però da allora furono forti di una certezza: «Silvia era un ostaggio prezioso».
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DUECENTO MILITARI ITALIANI
Ci sono stati momenti brutti. La giovane è stata molto male: ha sofferto di malaria o febbre gialla. Intere settimane trascorse da sola con il febbrone, buttata sul giaciglio che le avevano preparato. La conversione all'Islam matura in questa solitudine e disperazione estrema. Nel frattempo gli 007 la cercavano tra mille difficoltà. Per fortuna, a Mogadiscio le nostre forze armate hanno un agguerrito contingente di 200 istruttori tra carabinieri, paracadutisti e varie altre specialità.
SILVIA ROMANO CON IL GIUBBOTTO ANTIPROIETTILE
Il loro lavoro quest'anno è stato doppio, dovendo istruire i somali e fare da scorta agli agenti dell'Aise. Nonostante ciò, i limiti erano evidenti. Raccontano le voci di dentro: «In un territorio fuori controllo come la Somalia, dove c'è una guerra non dichiarata, un occidentale non può muoversi inosservato. Occorre trovare il mediatore giusto».
Sottolineano l'aggettivo: «Ci sono tanti sciacalli e velleitari». Tra quelli che si sono proposti all' Aise, pure un italiano famoso che da qualche anno si è trasferito in Somalia: quel Mario Scaramella, già consulente della Commissione Mitrokhin, oggi direttore della scuola di diritto dell' Università Statale del South West, che vanta buone entrature, ma il cui attivismo non è stato gradito.
Dopo il video di agosto e il fallimento inaspettato, la cellula dell' Aise che dipende per catena gerarchica dal vicedirettore Giovanni Caravelli (che s' è conquistato la promozione sul campo) è dovuta ripartire, ma con un dettaglio in più. Ha capito che per arrivare all' altro capo del filo occorreva «rivolgersi ai colleghi turchi», ovvero il servizio segreto, il Mit.
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I BUONI RAPPORTI CON ANKARA
Un passo indietro: a livello di intelligence, tra Aise e Mit le cose filano a meraviglia. Il direttore uscente Luciano Carta ha coltivato il rapporto con il suo collega Hakan Fidan in nome della comune appartenenza alla Nato, consapevole che i turchi hanno notevolmente esteso la loro rete nel Medio Oriente e nel Corno d'Africa. In effetti Ankara non lo ha deluso. Di qui i pubblici ringraziamenti dal primo minuto. Ma qualcuno ha voluto esagerare. All' Aise non hanno apprezzato la fotografia che il Mit ha voluto far circolare, con Silvia che indossa un giubbotto antiproiettile a marchio turco. La foto suggerisce che il lavoro l' avessero fatto tutto i turchi.
E invece no. «Quella foto potrebbe essere un fake - fanno sapere - perché è stata recuperata dagli uomini dell intelligence italiana con quello stesso giubbetto che si vede nella foto, che è dotazione rigorosamente italiana, e che le è stato dato nell' immediatezza senza alcun simbolo».
Verissimo, insomma, che grazie alla filiera «turca», attivata a dicembre, dopo poche settimane c' è stato un balzo in avanti nella gestione del rapimento ed è giunto ai nostri 007 un secondo video. Una nuova prova che Silvia era in vita e anche «che si stava trattando con le persone giuste».
Assai ingeneroso, invece, sostenere che il lavoro difficile lo abbiano fatto gli altri perché la cellula italiana è stata sul campo, eccome. Per un lavoro d' intelligence alla vecchia maniera. Oltretutto i sequestratori sono stati sempre molto accorti. «Non le hanno mai concesso una telefonata alla madre, come pure aveva chiesto». Pensavano, non a torto, che sarebbe stato facile intercettarli e localizzarli.
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Alla fine, sono stati gli italiani che l' hanno portata al sicuro nel compound militare di Mogadiscio. E se mai servisse una controprova di quali pericoli si corrono da quelle parti, si racconta che la telefonata con Conte s' è interrotta perché gli insorti sparavano con i mortai e sono dovuti correre tutti ai ripari. «Perché questa è Mogadiscio».