TWITTER IN PRATICA ERA IL BRACCIO ARMATO DEI DEMOCRATICI - EMERGONO NUOVI DETTAGLI DAI "TWITTER FILES", PUBBLICATI DAL GIORNALISTA MATT TAIBI, SU VOLONTÀ DI MUSK: IL DIPARTIMENTO DI STATO AMERICANO NEL 2017 CHIESE AL SOCIAL MEDIA DI CANCELLARE QUASI 250MILA ACCOUNT (IDENTIFICATI COME 'PROXY' RUSSI) CHE DEFINIVANO IL COVID UN ARMA BIOLOGICA CREATA IN LABORATORIO - LA MOSSA SERVIVA PER "INSERIRSI" NEL CLUB DI MODERAZIONE DEI CONTENUTI. NEI NUOVI DOCUMENTI PUBBLICATI DA TAIBBI SI METTE IN EVIDENZA ANCHE LA…

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Stefano Graziosi per “la Verità”

 

matt taibbi matt taibbi

Al peggio, si sa, non c'è mai fine. E infatti sono rivelazioni inquietanti quelle emerse dalle nuove tranche dei Twitter Files, pubblicati dal giornalista Matt Taibbi. L'aspetto forse maggiormente rilevante risiede nel fatto che il Dipartimento di Stato effettuò delle ingerenze nell'attività della piattaforma di San Francisco.

 

Nel 2020, il Global Engagement Center (Gec), ente che fa capo allo stesso Dipartimento di Stato, aveva chiesto - come sottolineato anche dallo stesso Elon Musk - la sospensione di quasi 250.000 account.

 

Secondo Taibbi, l'allora dirigente di Twitter Yoel Roth «ha visto la mossa del Gec come un tentativo da parte del Gec di utilizzare le informazioni di altre agenzie per "inserirsi" nel club di moderazione dei contenuti che includeva Twitter, Facebook, Fbi, Dipartimento per la sicurezza interna». In particolare, il Gec indentificò come "proxy russi" i profili che definivano il Covid un'arma biologica, criticando le «ricerche condotte presso l'istituto di Wuhan» e «attribuendo la comparsa del virus alla Cia».

 

ELON MUSK TWITTER ELON MUSK TWITTER

Ricordiamo che le precedenti tranche dei Twitter Files hanno dimostrato come l'Fbi abbia pesantemente influenzato l'attività di censura condotta da Twitter ai danni di utenti conservatori e di scienziati non allineati alle politiche pandemiche dell'amministrazione Biden. Eppure, secondo Taibbi, i funzionari di Twitter erano restii ad accettare la partecipazione del Gec alla rete di enti governativi con cui collaboravano per la moderazione dei contenuti.

 

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«Penso che ritenessero l'Fbi meno trumpista», ha riferito un ex funzionario del Dipartimento della Difesa. D'altronde, nel recente passato era emerso come l'account di Donald Trump fosse stato bloccato nel 2021 a seguito delle pressioni di Michelle Obama e degli stessi dipendenti di Twitter: dipendenti che, stando a quanto riportato dal sito Open Secrets, finanziarono pesantemente il Partito democratico nei cicli elettorali del 2018 e del 2020.

 

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Non a caso, nei nuovi documenti è spuntato che nel 2020 l'allora presidente della Commissione Intelligence della Camera, il democratico Adam Schiff, chiese a Twitter di censurare presunte molestie di utenti legati a Qanon contro di lui e un suo assistente. Nell'occasione, Schiff chiese anche di bloccare gli account di un giornalista. Richieste che, almeno sul momento, furono respinte da Twitter. «Questo non lo facciamo», fu la posizione espressa dalla piattaforma.

 

Ma non è finita qui. Nei nuovi documenti pubblicati da Taibbi si mette in evidenza anche la pressione esercitata dai parlamentari dem, come il senatore Mark Warner, su Twitter già nel 2017, per contrastare la disinformazione russa.

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L'allora vicepresidente per le politiche pubbliche della piattaforma, Colin Crowell, scrisse un messaggio a Jack Dorsey, sostenendo che i democratici stavano «prendendo suggerimenti da Hillary Clinton». In quel periodo, la Clinton aveva infatti pubblicato un libro di memorie, in cui accusava i social network di aver diffuso disinformazione russa ai suoi danni nel corso della campagna elettorale per le presidenziali dell'anno prima. Fu proprio a seguito di queste pressioni che Twitter creò una "Russia task force".

 

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Eppure le indagini della piattaforma riuscirono a rinvenire soltanto pochi account effettivamente collegati alla Russia e scarse evidenze di uno sforzo coordinato russo su Twitter. La pressione politica e mediatica sulla società di San Francisco è tuttavia proseguita, fino a portarla, secondo Taibbi, alla controversa (e ormai ben nota) collaborazione con l'Fbi sulla moderazione dei contenuti. Del resto, è proprio partendo dagli allarmi sulla disinformazione russa che, nell'ottobre del 2020, la piattaforma finì per censurare lo scoop (fondato) del New York Post su Hunter Biden.

 

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