L’UOMO CHE SPARAVA AI CANI - UN EX MARINE RACCONTA IN UN LIBRO IL SUO RITORNO NEGLI USA DOPO LA GUERRA IN IRAQ E L’UCCISIONE DEL SUO CANE MALATO: “MI STAVA VENENDO VOGLIA DI TORNARE INDIETRO. E FANCULO TUTTO QUANTO”

Negli Usa il libro dell’anno lo ha scritto un marine: “Tornare indietro è come respirare dopo aver rischiato di annegare. E' doloroso ma fa bene” - Poi racconta come ha trovato la forza per uccidere il suo cane: “Devi concentrarti sulla tacca di mira, così il bersaglio diventa sfocato. Mi sono concentrato sul cane, poi sulla tacca. Il cane è diventato una macchia grigia e ho tolto la sicura''..

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Estratto del libro “Fine missione” di Phil Klay pubblicato da “La Repubblica”

 

MARINE CANE MARINE CANE

Phil Klay ha trentadue anni, è stato marine in Iraq dal 2007 al 2008. “Fine missione”, il suo primo libro, da cui è tratto il racconto di cui qui anticipiamo alcuni brani, ha vinto il National book award ed è uno dei cinque libri dell’anno per il “New York Times”. Edito in Italia da Einaudi (traduzione di Silvia Pareschi, 248 pagine, 19 euro). È in libreria da oggi

 

Sparavamo ai cani. Non per sbaglio. Lo facevamo di proposito, e la chiamavamo Operazione Scooby. Io amo i cani, per questo ci ho pensato parecchio. La prima volta è stato per istinto.

 

Sento O’Leary che fa: «Gesú», e vedo un cane marrone tutto pelle e ossa che lecca il sangue come se bevesse acqua da una ciotola. Non è sangue americano, però insomma, quel cane lo sta leccando. Da quell’istante si apre la caccia al cane. Sul momento non ci pensi. Ti chiedi solo chi ci sarà in quella casa, che armi avrà, come ucciderà te e i tuoi compagni. Procedi da un isolato all’altro, armato di un fucile che spara a cinquecentocinquanta metri, e ammazzi gente a cinque metri dentro una scatola di cemento. Cominci a pensarci più tardi, quando te ne lasciano il tempo.

COVER LIBRO PHIL KLAY COVER LIBRO PHIL KLAY

 

Non è che dalla guerra al centro commerciale di Jacksonville uno ci vada tirando dritto. Al termine della missione ci hanno mandati a TQ, una base logistica nel deserto, per farci decomprimere un po’. Non ho capito bene cosa volessero dire. Decomprimere. Per noi voleva dire farci un sacco di seghe sotto la doccia. Fumare un sacco di sigarette e giocare un sacco a carte. E poi ci hanno portati in Kuwait e ci hanno caricati su un aereo di linea per rispedirci a casa.

 

Ecco qua. Prima eri in una zona di guerra dura e adesso ti ritrovi su un sedile imbottito a fissare la bocchetta dell’aria condizionata, pensando: ma dove cazzo sono? Hai un fucile tra le ginocchia, come tutti gli altri. Anche se vi siete fatti la doccia, sembrate tutti lerci e deperiti. Avete gli occhi infossati e la mimetica ridotta una merda. E tu stai lì seduto, chiudi gli occhi e pensi. Il problema è che i tuoi pensieri non hanno un ordine logico.

 

Cerchi di pensare a casa tua, e ti ritrovi nella casa delle torture. Vedi le membra mozzate nell’armadietto e il ritardato nella gabbia. Starnazzava come un pollo. La testa rimpicciolita sembrava una noce di cocco. Dopo un po’ ti ricordi che secondo Doc gli avevano iniettato del mercurio nel cranio, eppure continui a non capire.

 

PHIL KLAY 2 PHIL KLAY 2

Rivedi quello che hai visto le volte che hai sfiorato la morte. Il televisore rotto e il cadavere dell’ hajji. Eicholtz coperto di sangue. Il tenente alla radio. Ho cercato di pensare ad altro, tipo a mia moglie Cheryl. Ha la pelle chiara e una leggera peluria scura sulle braccia. Lei se ne vergogna, però è morbida. Delicata. Ma pensare a Cheryl mi faceva sentire in colpa, e allora ho pensato al caporale Hernandez, al caporal maggiore Smith e a Eicholtz.

 

Eravamo come fratelli, io e Eicholtz. Una volta abbiamo salvato la vita a un marine. Qualche settimana dopo Eicholtz si arrampica su un muro. Quando è a metà, un insorto si sporge da una finestra e gli spara nella schiena. Così penso a queste cose. E vedo il ritardato, e il muro su cui è morto Eicholtz. Ma il fatto è che penso un sacco, proprio un sacco, a quei cani del cazzo.

 

american sniper scena del bambino e della madre american sniper scena del bambino e della madre

E penso al mio, di cane. Vicar. Al canile dove l’abbiamo preso, quando Cheryl ha detto che dovevamo prendere un cane anziano perché nessuno sceglie i cani anziani. Al fatto che non siamo mai riusciti a insegnargli niente. A quando vomitava tutte quelle schifezze che non avrebbe dovuto mangiare. A quando se la svignava pieno di vergogna, coda bassa e testa bassa, rannicchiato sulle zampe posteriori. A quando ha cominciato a diventare grigio, due anni dopo che l’abbiamo preso, e con tutti quei peli bianchi sul muso sembrava che avesse i baffi.

 

E allora ecco qua. Vicar e Operazione Scooby per tutto il viaggio di ritorno.

Forse, non so, sei preparato ad ammazzare la gente. Ti addestri su bersagli a forma di uomo proprio per essere pronto. Certo, abbiamo anche il «bersaglio cane». Il bersaglio Delta. Ma non somiglia per un cazzo a un cane.

 

Durante il volo ho pensato anche a quello. Te ne stai lì seduto con il fucile in mano ma senza munizioni. E poi l’aereo atterra in Irlanda per fare rifornimento. E c’è una nebbia che non si vede un cazzo, però siamo in Irlanda, ci dovrà pur essere della birra. E il pilota dell’aereo ci legge un messaggio secondo cui le disposizioni generali rimangono in vigore finché non arriviamo negli States, e noi al momento siamo ancora in servizio. Perciò niente alcol. Be’, l’ufficiale comandante è saltato su e ha detto: «Quest’ordine ha senso come una maledetta mazza da football. Forza, marine, avete tre ore di tempo. Ho sentito che qui si beve Guinness».

american sniper chris kyle bradley cooper american sniper chris kyle bradley cooper

 

Ci siamo ubriacati in fretta. Quasi tutti avevamo perso una decina di chili, e non toccavamo un goccio d’alcol da sette mesi. È stato bello. Siamo risaliti sull’aereo e ci siamo addormentati come stronzi. Ci siamo svegliati in America. Solo che quando siamo atterrati a Cherry Point non c’era nessuno. Niente famiglie. Il sergente artigliere ha detto che ci aspettavano a Lejeune. In pratica, prima carichiamo la nostra roba sui camion e prima le rivediamo. Ricevuto. Ci siamo divisi in squadre e abbiamo buttato zaini e sacche sui camion. Poi sono arrivati gli autobus e noi ci siamo ammassati dentro. Da Cherry Point a Lejeune c’è un’ora di strada.

 

Il primo pezzo è in mezzo agli alberi. Al buio non si vede molto. Negozi ancora chiusi. Neon spenti nei distributori e nei bar. Guardando fuori capivo vagamente dove mi trovavo, ma non mi sentivo a casa. Ho pensato che sarei davvero arrivato a casa quando avessi baciato mia moglie e accarezzato il mio cane.

 

chris kyle chris kyle

Siamo entrati dal cancello laterale di Lejeune, che dista circa dieci minuti dalla zona del nostro battaglione. Ho visto la caserma e ho pensato: eccola. E poi ci siamo fermati quando mancavano solo quattrocento metri. Sarebbe bastata una corsetta per raggiungere le famiglie. Vedevo i riflettori installati dietro una delle caserme. E c’erano macchine parcheggiate dappertutto. Sentivo il brusio della folla. Le famiglie erano lì. Ma noi ci siamo messi tutti in fila, pensando a loro là in fondo. Io pensavo a Cheryl e Vicar. E abbiamo aspettato.

 

Quando sono arrivato allo sportello e ho consegnato il fucile, però, mi sono bloccato. Era da mesi che non me ne separavo. Non sapevo dove mettere le mani. Prima le ho infilate in tasca, poi le ho tirate fuori e ho incrociato le braccia, e alla fine le ho lasciate penzolare lungo i fianchi, inutili. Dopo che tutti abbiamo restituito il fucile, il primo sergente ci ha fatti disporre in una formazione di parata di quelle serie.

 

Abbiamo marciato preceduti da un cazzo di stendardo sventolante. Quando abbiamo raggiunto la prima caserma, la gente ha cominciato ad applaudire. Non ho visto nessuno finché non abbiamo svoltato l’angolo, e poi ecco, un grande muro di persone con cartelli in mano sotto una fila di riflettori, e i riflettori erano puntati su di noi e ci abbagliavano, così era difficile scrutare tra la folla e distinguere le facce. Ho visto delle telecamere. C’erano un sacco di bandiere americane.

 

Al centro della prima fila, l’intero clan dei MacManigan reggeva uno striscione con la scritta: URRÀ SOLDATO SCELTO BRAD-LEY MACMANIGAN. SIAMO FIERI DI TE. Ho passato lo sguardo sulla folla. Avevo parlato al telefono con Cheryl dal Kuwait, non per molto, giusto il tempo di dire: «Ehi, sto bene», e: «Sì, entro quarantott’ore». E lei aveva detto che sarebbe venuta, ma era strano parlarle al telefono. Era da un po’ che non sentivo la sua voce.

 

Cercavo mia moglie. E ho visto il mio nome su un cartello: SERG. PRICE, diceva. Ma il resto era coperto dalla folla, e non vedevo chi lo reggeva. E poi ho visto il resto del cartello. Diceva: SERG. PRICE, ADESSO CHE SEI TORNATO PUOI DARE UNA MANO IN CASA. ECCO LA LISTA DELLE COSE DA FARE. 1) IO 2) RIPETERE NUMERO 1.

PHIL KLAY PHIL KLAY

E lì, con il cartello in mano, c’era Cheryl. Portava un paio di calzoncini mimetici e una canottiera, anche se faceva freddo. Doveva averli messi per me. Era più magra di quanto ricordassi. Anche più truccata. Però era lei. Mi sono avvicinato e lei mi ha visto e si è illuminata.

 

Era da tanto che una donna non mi sorrideva così. Mi sono fatto sotto e l’ho baciata. Ma era passato troppo tempo ed eravamo entrambi troppo nervosi, e ho avuto l’impressione che stessimo solo unendo le labbra, non so. Lei si è tirata indietro e mi ha guardato, poi mi ha messo le mani sulle spalle ed è scoppiata a piangere. Si è strofinata gli occhi e mi ha abbracciato, stringendomi forte a sé. Il suo corpo morbido si adattava al mio. Mi ha chiesto se volevo guidare, e accidenti se volevo.

 

Un’altra cosa che non facevo da tanto tempo. Ho messo la retromarcia, sono uscito dal parcheggio e mi sono diretto verso casa. Stavo pensando che avevo voglia di fermarmi in un posto buio e rannicchiarmi con lei sul sedile posteriore, come ai tempi della scuola. Invece sono uscito dal parcheggio e ho imboccato il McHugh. Cheryl mi ha chiesto: «Come stai?» che voleva dire: com’è stato? adesso sei pazzo?

Io ho risposto: «Bene. Sto benone».

 

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Poi è tornato il silenzio. Ero contento di guidare. Così avevo qualcosa su cui concentrarmi. Percorri questa via, gira il volante, percorrine un’altra. Un passo alla volta. Si può superare tutto, un passo alla volta.

Lei ha detto: «Sono felice che sei a casa». Poi ha detto: «Ti amo tanto». Poi ha detto: «Sono fiera di te».

Io ho risposto: «Ti amo anch’io».

 

Quando siamo arrivati a casa Cheryl mi ha aperto la porta. Non sapevo neanche dov’erano le mie chiavi. Vicar non mi è venuto incontro. Sono entrato, ho guardato in giro, ed eccolo lì sul divano.

Quando mi ha visto si è alzato adagio. Aveva il pelo più grigio di prima e strani grumi di grasso sulle zampe, quei piccoli tumori che vengono ai labrador, solo che lui ne aveva un sacco. Si è messo a scodinzolare. È sceso dal divano con grande cautela, come se sentisse dolore. E Cheryl ha detto: «Si ricorda di te».

 

«Perché è così magro?» ho detto, e mi sono chinato ad accarezzarlo dietro le orecchie.

«Il veterinario ha detto di tenergli il peso sotto controllo. E ormai dopo mangiato vomita quasi sempre». Cheryl mi stava tirando per il braccio. Mi stava tirando via da Vicar. E io l’ho lasciata fare. Mi ha chiesto: «Non sei contento di essere a casa?». Le tremava la voce, come se non fosse sicura di cosa avrei risposto. E io ho detto: «Sì, sì, certo». E lei mi ha baciato con foga. L’ho afferrata, l’ho presa in braccio e l’ho portata in camera da letto. Mi sono appiccicato un gran sorriso sulla faccia, ma non è servito. Allora mi è sembrato che avesse un po’ paura di me.

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Probabilmente tutte le mogli avevano un po’ paura.

 

E questo è stato il mio ritorno a casa. Non è andato male, credo. Tornare indietro è come respirare per la prima volta dopo aver rischiato di annegare. Anche se è doloroso, fa bene. Non posso lamentarmi. Cheryl si è comportata alla grande. A Jacksonville ho visto la moglie del caporale Curtis. Gli aveva speso tutta la paga di guerra prima che tornasse ed era incinta di cinque mesi, non abbastanza incinta per un marine che rientra da una missione di sette mesi.

 

 

La moglie del caporal maggiore Weissert non è neanche andata a prenderlo. Lui ha riso, ha detto che probabilmente sua moglie aveva capito male l’orario, e O’Leary lo ha accompagnato a casa. Arrivano e la trovano vuota. Vuota di tutto, non solo di persone: niente mobili, niente roba alle pareti, niente di niente. Weissert guarda quello schifo, scrolla la testa e si mette a ridere. Allora lui e O’Leary sono usciti a comprare del whisky e si sono sbronzati proprio lì, nella casa vuota.

 

Weissert ha bevuto fino ad addormentarsi e quando si è svegliato si è trovato accanto MacManigan seduto sul pavimento. Ed è stato proprio MacManigan a ripulirlo e portarlo alla base, in tempo per le lezioni che ti fanno seguire su argomenti tipo non suicidarti o non picchiare tua moglie. E Weissert fa: «Io non posso picchiare mia moglie. Non so dove cazzo è andata».

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Quando non ero con il resto della squadra, me ne stavo sul divano con Vicar, a guardare le partite di baseball che Cheryl mi aveva registrato. A volte io e Cheryl parlavamo dei suoi sette mesi, delle mogli rimaste a casa, della sua famiglia, del suo lavoro, del suo capo. A volte mi faceva qualche timida domanda. A volte rispondevo. E per quanto fossi contento di essere negli States, e anche se avevo odiato gli ultimi sette mesi e l’unica cosa che mi aveva dato forza erano stati i miei commilitoni marine e il pensiero del rientro a casa, mi stava venendo voglia di tornare indietro. E fanculo tutto quanto.

 

La settimana dopo, al lavoro, abbiamo fatto solo mezze giornate e stronzate. Visite mediche per curare ferite che i ragazzi avevano nascosto o ignorato. E tutte le sere io e Vicar guardavamo la tv sul divano, aspettando che Cheryl finisse il turno alla Texas Roadhouse.

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Vicar dormiva con la testa sulle mie ginocchia, svegliandosi ogni volta che gli allungavo una fetta di salame. Il veterinario aveva raccomandato a Cheryl di non dargli il salame, ma Vicar si meritava qualcosa di buono.

 

Quando lo accarezzavo, la metà delle volte sfregavo contro uno dei suoi tumori e di sicuro gli facevo male. Sembrava che gli facesse male tutto, anche scodinzolare e mangiare la pappa. Camminare. Sedersi. E quando vomitava, un giorno sì e uno no, tossiva come se stesse soffocando. Era il rumore che mi dava fastidio.

 

Pulire il tappeto non mi disturbava. poi Cheryl tornava a casa, ci guardava, scuoteva la testa e diceva sorridendo: «Be’, fate proprio pena». Volevo che Vicar mi stesse accanto, ma non sopportavo di guardarlo. Dev’essere per questo che quel fine settimana ho lasciato che Cheryl mi trascinasse fuori di casa. Abbiamo preso la mia paga di guerra e abbiamo comprato un sacco di roba. Perché è così che l’America combatte il terrorismo.

 

Che esperienza. Tua moglie che ti porta a fare acquisti a Wilmington. L’ultima volta che hai camminato in una via cittadina, il marine di punta si è messo sul ciglio della strada a controllare cosa c’era più avanti e sui tetti di fronte. Dietro di lui, un altro marine teneva d’occhio le finestre dei piani alti, un altro controllava le finestre un po’ più in basso, fino ai ragazzi che coprivano il livello della strada e all’ultimo marine che guardava le spalle a tutti.

scena da american sniper scena da american sniper

 

In una città possono ammazzarti da un milione di posti. A Wilmington non hai una squadra, non hai un compagno di battaglia, non hai neanche un’arma. Per dieci volte fai per prenderla e quando non la trovi sussulti. Sei al sicuro, dovresti sentirti in codice bianco, e invece no. Invece sei rinchiuso dentro un negozio American Eagle. Tua moglie ti passa dei vestiti e tu entri nella minuscola cabina di prova. Chiudi la porta e non vuoi più riaprirla. Fuori c’è gente che passa davanti alle finestre come se niente fosse. Gente che non ha idea di dove sia Falluja, dove sono morti tre membri del tuo plotone. Gente che ha passato tutta la vita in codice bianco.

 

Alla fine ero schizzato. Cheryl non mi ha lasciato guidare. E quando siamo arrivati a casa abbiamo visto che Vicar aveva vomitato ancora. L’ho trovato sul divano che cercava di alzarsi sulle zampe tremanti. E ho detto: «È arrivato il momento».

Lei ha risposto: «Domani lo porto dal veterinario».

 

E io: «Nel senso che darai cento dollari a uno stronzo perché ammazzi il mio cane». Lei è stata zitta. Le ho detto: «Non si fa così. È compito mio».

 

bradley copper in american sniper bradley copper in american sniper

«Okay», mi ha risposto. È andata da Vicar e si è chinata ad abbracciarlo. I capelli le hanno nascosto la faccia e non ho visto se stava piangendo. Poi è andata in camera da letto e ha chiuso adagio la porta. Mi sono seduto sul divano e mentre grattavo Vicar dietro le orecchie ho escogitato un piano. Non era un buon piano, però era un piano. Vicino a casa mia c’è una strada sterrata, e di fianco alla strada c’è un torrente dove intorno al tramonto filtra la luce. È bello lì. Ogni tanto ci andavo a correre. Mi sembrava che fosse il posto giusto.

 

In macchina non ci vuole molto. Siamo arrivati proprio al tramonto. Ho parcheggiato sul ciglio della strada, ho tirato fuori il fucile dal baule, me lo sono messo a tracolla e sono andato dal lato del passeggero. Ho aperto lo sportello, ho preso in braccio Vicar e l’ho portato giù al torrente. Era pesante e caldo, e mentre lo trasportavo mi leccava la faccia, le leccate lente e pigre di un cane che è stato felice tutta la vita.

 

Quando l’ho messo giù e ho fatto un passo indietro, lui mi ha guardato. Ha agitato la coda. E io mi sono bloccato. Solo un’altra volta avevo esitato in quel modo. Nel bel mezzo di Falluja, un insorto si era introdotto nel nostro perimetro. Quando avevamo lanciato l’allarme era scomparso. Lo avevamo cercato dappertutto, finché Curtis aveva guardato dentro una cisterna dell’acqua che veniva usata come pozzo nero, pieno per un quarto di merda liquida.

 

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L’insorto ci sguazzava dentro, nascondendosi sotto il liquame e tornando su solo per respirare. Sembrava un pesce che veniva a galla per catturare una mosca. Non riuscivo neanche a immaginarlo. Già l’odore era insopportabile. Quattro o cinque marine avevano puntato il fucile e sparato nella merda. Io no.

 

In quel momento, mentre guardavo Vicar, avevo la stessa sensazione. Che qualcosa dentro di me si sarebbe spezzato, se lo avessi fatto. E poi ho pensato a Cheryl che portava Vicar dal veterinario, a un estraneo che metteva le mani sul mio cane, e mi sono detto: Devo farlo.

 

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Non avevo un fucile a pallettoni, avevo un AR-15. Praticamente uguale a un M16, l’arma su cui ero stato addestrato, ed ero stato addestrato bene. Puntamento, controllo del grilletto, controllo del respiro. Concentrati sulla tacca di mira, non sul bersaglio. Il bersaglio deve essere sfocato. Mi sono concentrato su Vicar, poi sulla tacca. Vicar è diventato una macchia grigia. Ho tolto la sicura. Dovevano essere tre spari. Non basta tirare il grilletto. Bisogna farlo bene. Due colpi consecutivi al corpo. Poi uno ben mirato alla testa. I primi due devono essere in rapida successione, è importante.

 

Ho tirato il grilletto, ho sentito il rinculo e mi sono concentrato sulla tacca, non su Vicar, per tre volte. Due proiettili gli hanno trapassato il petto, uno il cranio, e sono arrivati in fretta, troppo in fretta perché potesse sentirli. È così che va fatto, uno sparo subito dopo l’altro così non puoi neanche cercare di riprenderti, perché è quello il momento in cui fa male.

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Sono rimasto lì a fissare la tacca. Vicar era una macchia grigia e nera. La luce stava calando. Non ricordavo più cosa volessi farmene del corpo.

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