VIDEO! ER VIPERETTA ERA GIÀ FINITO AR GABBIO: DA RAGAZZINO S'ERA INNAMORATO DELLA FIGLIA DI UN VIGILE, IL QUALE NON GRADIVA, UN GIORNO FERRERO LO INCONTRÒ E GLI DIEDE UNO SCHIAFFONE - “MAMMA ANITA MI PORTAVA LE SIGARETTE IN CARCERE. MI DICEVA…” – E POI RIVELA: “ALL’INIZIO NON ERO IL VIPERETTA, ERO ER GATTO DE TESTACCIO” – NEGLI ULTIMI TEMPI SI ERA STANCATO DELLA SAMP: “ACQUIRENTI ALL'ORIZZONTE? MAGARI. NON CE NE SONO. FATEMELI CONOSCERE. PRESENTATEMELI…” - VIDEO

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Jacopo Iacoboni per "la Stampa"

 

MASSIMO FERRERO VIPERETTA MASSIMO FERRERO VIPERETTA

Il problema è che, lui per primo, non ha mai seguito il motto che ripeteva sempre: «Vola basso e schiva il sasso». Ha volato troppo alto e ha pigliato il sasso in faccia. «Lo stanno trattando peggio di Totò Riina», lamenta il suo avvocato, e certo Massimo Ferrero non è Totò Riina.

 

In carcere (minorile) però c'era già stato, adolescente irregolare, romano di Testaccio, pokerista e uomo di azzardi, un incrocio tra accuse degne dei furbetti del quartierino e un personaggio che non avrebbe sfigurato in Febbre da cavallo. Quando finì dentro da ragazzino s' era innamorato della figlia di un vigile, il quale non gradiva, un giorno Ferrero lo incontrò in piazza e gli diede uno schiaffone facendogli cadere il berretto. Furbo ma non furbissimo: dietro il pizzardone c'era una volante della polizia e Ferrero finì al gabbio. «Lo chiamavano riformatorio, ma in realtà era un carcere vero e proprio».

 

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«Mamma Anita mi portava le sigarette in carcere. Mi diceva "a Massimì devi comincià, sei grande! "E io: "A ma' ma io non fumo!". E lei: "Zitto e fuma!"». Eterno ritorno. Il padre era autista di autobus. La madre aveva un banco al mercato di piazza Vittorio all'Esquilino. Lui da Testaccio scappava lontanissimo, fin giù a Cinecittà, alla fine della Tuscolana, e non si sa letteralmente cosa facesse per giornate intere. Le prime comparsate, ma pure al carcere, appunto. «Erano tempi liberi e insieme complicati. Chi aveva problemi, andava a rubare i portafogli sugli autobus, annavano a fa' er quajo, come si diceva».

 

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Ferrero faceva letteratura di questo suo passato dal riformatorio alla casa in piazza di Spagna, tipo che fosse amico di Giuliano Gemma, con cui scoprì Cinecittà. O i vari racconti sul suo soprannome, er viperetta. «All'inizio ero Er Gatto de Testaccio, un gattaccio di strada, ovviamente, non un aristogatto». Fece girare che il nome er viperetta gliel'avesse dato Monica Vitti quando lui la difese da un molestatore.

 

Poi però lui stesso aveva anche raccontato una storia diversa, il nome gliel'appioppò un costumista gay di Cinecittà che gli diede della vipera quando lui rifiutò con forza certe avances, in un film che voleva essere pasoliniano: «Uno mi toccò il fondoschiena. Al Gatto di Testaccio non si poteva fare. Gli detti una capocciata. E lui a terra gridava: "Sei una vipera, sei una vipera!"».

 

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Verità o mitomania? Il problema è che con Ferrero le dimensioni realtà e cinema si sono a tal punto confuse da creare qualche leggerissimo problema di affidabilità anche nelle sue imprese, le cui accuse di bancarotta, che riceve adesso per il fallimento di quattro società in Calabria, paiono più che una nemesi un destino, a prescindere da come poi andranno i processi. «Io sono nato e cresciuto a Cinecittà dove la realtà e la fantasia si sono sempre fuse», dirà lui. Illuminante.

 

Verità e bugie. Ex giocatore di poker da bische romane, anche come imprenditore ha sempre cavalcato tra l'immagine autoalimentata del self made man de noantri, e lo spregiudicato raider di provincia, mai amato dai tifosi della Sampdoria, che aveva rilevato sette anni fa con 15 milioni di debiti dal petroliere Garrone e, a pensarci, non è neanche andata così male come altre sue libere intraprese.

 

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Solo che Ferrero rifiutò di venderla a una cordata guidata da Gianluca Vialli, e non è che la cosa sia stata presa bene dalla curva doriana. Pochi giorni fa, Ferrero ha ammesso che sta per gettare la spugna: «Dopo anni di attacchi calunniosi, e critiche pesanti, che io ritengo ingiustificate, comincio a essere stanco. Non della società, di fare il presidente. Ma della cattiveria nei miei confronti. Acquirenti all'orizzonte? Magari. Non ce ne sono. Fatemeli conoscere. Presentatemeli».

 

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L'amore quasi estetico per le belle donne potrebbe riempire pagine, senza però liberarsi mai da quel tragico complesso dell'infanzia povera, l'idea che chi non era come lui era un pariolino (come disse in tv a Panatta) e invece «per incontrare le donne dovevi vivere in un'altra dimensione, borghesia, banche, avvocati, notai. O figli di papà. A noi povera gente non restava niente, per noi le ragazze erano tutte vestite, manco a Ostia se spojaveno». Ha avuto una prima moglie da cui ebbe due figlie (i figli arrivarono poi a cinque con la seconda moglie e la terza compagna). Si è risposato con la figlia del proprietario di un'azienda casearia di Viterbo, che i soldi li aveva davvero.

 

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E per anni gestì con lei sei caseifici. Insomma, come dicono i viterbesi, "faceva il formaggiaro". Ma lui voleva essere ricordato come uomo di cinema e sciarpe di seta a pois, di doppi anelli alle dita del mignolo e di spettacolo, al limite di sport, inteso come tv. Nel '98 fondò, con i soldi della moglie, la Blu Cinematografica, la sua società di produzione di film: inanellò una serie di buchi neri finanziari, tipo Libero burro o La carbonara, perdendo un miliardo di lire. Produsse cose come Tra(sgre)dire di Tinto Brass, film con Bonolis, o con la coppia Tognazzi/Izzo: la storia del cinema poteva attendere.

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Ma anche quella della gestione oculata di un'azienda. Anche i suoi cinema romani, comprati con una nuova società, Farvem Real Estate, alcuni dei quali dal fallimento dell'impero Cecchi Gori, si portarono lo stigma di quel destino: ingiunzioni di pagamento, cartelle esattoriali, cause. Nel 2009, con un'altra scatola, FG Holding, si comprò una compagnia aerea di voli charter, la Livingston Energy Flight. Risultato: nel 2010 l'Enac sospese la licenza di volo alla compagnia, e il tribunale di Busto Arsizio ne dichiarò l'insolvenza. Non era più cinema, era realtà.

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