1. RIFORMA MADIA BOCCIATA
Filippo Santelli per la Repubblica
I guardiani della Costituzione, la Carta che il governo Renzi vuole cambiare, bocciano una delle riforme chiave dell’esecutivo, quella della pubblica amministrazione. C’è una matassa di poteri e competenze attorno alla sentenza pubblicata ieri dalla Consulta.
La legge delega Madia, ha stabilito la Corte, è «parzialmente illegittima» perché lede in alcuni punti chiave l’autonomia delle Regioni: su dirigenti pubblici, organizzazione del lavoro, società partecipate e servizi locali. I decreti di attuazione infatti, in gran parte già approvati dal governo, hanno bisogno di una «intesa» con i governatori in Conferenza Unificata, non di un semplice «parere».
Uno stop che si riverbera anche sul referendum del 4 dicembre, quando gli italiani dovranno decidere tra le altre cose se accentrare in capo allo Stato una serie di competenze oggi affidate dal Titolo V della Costituzione alle Regioni. L’incertezza dei mercati per l’esito del voto ha gonfiato ieri lo spread tra titoli di Stato italiani e tedeschi a 190 punti base, livello che non si vedeva dal maggio del 2014. Il differenziale ha poi ripiegato a fine seduta verso quota 186, due punti sotto l’apertura, con il rendimento del decennale al 2,09%.
Con la sua decisione dunque la Corte costituzionale accoglie in parte il ricorso presentato dalla Regione Veneto. E censura una delle riforme su cui il governo ha investito più energie: «Siamo circondati da una burocrazia opprimente, un Paese ingovernabile», ha reagito Matteo Renzi. Ora l’iter della norma Madia, approvata lo scorso agosto ma da attuare con una serie di decreti delegati, si complica. La Consulta apre la strada a «soluzioni correttive» e ieri il governo ha congelato due dei cinque decreti attuativi approvati giovedì, quelli su dirigenti pubblici e servizi locali, per cui la delega scade oggi: sul tavolo del Presidente Mattarella, per la firma, sono arrivati solo gli altri tre.
Andrà rivisto il testo unico sulle partecipate, già legge da settembre, si salva quello sul pubblico impiego che il Cdm deve ancora approvare. Ma non è escluso si debba modificare anche la stessa legge delega “madre”, tornando così in Parlamento.
Una riforma a rischio caos insomma. Non a caso, insieme al governatore del Veneto Zaia («sentenza storica») e alle opposizioni, esultano le sigle dei dirigenti pubblici: «Tutto da rifare».
La ministra Madia non ha commentato, limitandosi a convocare i sindacati mercoledì per discutere del rinnovo del contratto del pubblico impiego: «Gli 85 euro proposti dal governo sono un aumento medio», ha precisato Pier Carlo Padoan. Ma da valutare, a una settimana dal voto, è soprattutto l’effetto sul referendum costituzionale: «Abbiamo reso licenziabile il dirigente pubblico che non si comporta bene e per la Consulta la norma è illegittima», ha detto Renzi.
«Poi mi dicono che non devono cambiare le regole del Titolo V». Una polemica contro la burocrazia riferita alle Regioni, precisa in serata Palazzo Chigi, non alla Corte. Nel frattempo il governo ha incassato la prima fiducia alla Camera sulla legge di Bilancio, con 348 sì e 144 contrari. Lunedì il voto definitivo, poi il Senato.
Il governo si sente accerchiato mentre gli investitori puntano sulla vittoria del No In caso di stallo politico la speculazione muoverà su Btp, Mps e Unicredit
RENZI: TUTTI CONTRO IL CAMBIAMENTO
Tommaso Ciriaco e Alberto D’Argenio per la Repubblica
«MI vogliono accerchiare, la lobby dei burocrati di Stato ha bocciato la riforma Madia e non vorrei che anche gli euroburocrati si stiano appoggiando ai mercati per mettermi in difficoltà ». In privato Matteo Renzi punta il dito sulle manovre domestiche e internazionali.
Manovre che a suo modo di vedere mirano a indebolire l’esecutivo italiano in vista del 4 dicembre. Un allarme che si somma alle analisi che nelle ultime ore si rincorrono tra Palazzo Chigi e il Tesoro, dove gli uomini del premier e di Padoan osservano non senza preoccupazione - l’andamento nervoso dello spread.
Il capo del governo sta iniziando a unire i puntini. Prima l’Economist che si schiera con il No, poi, ieri, la bocciatura della riforma Madia da parte della Corte costituzionale. Riforma che tra l’altro era già stata impallinata dal Consiglio di Stato. «Anche gli alti burocrati - è stata la reazione a caldo del leader - sono contro il cambiamento, tifano per il No e le loro posizioni di rendita». Un attacco solo apparentemente contro la Consulta, ma in realtà rivolto alle burocrazie, anche regionali, che per il premier non vogliono la riforma. E che cercano di colpire proprio alla vigilia del passaggio più decisivo della legislatura.
Non solo, ieri lo spread ha toccato quota 190 punti, per poi ripiegare a 186 in chiusura di seduta. Segno della tensione dei mercati in vista del referendum. Una volatilità che nelle stanze dell’esecutivo attribuiscono alla scommessa dei grandi investitori internazionali contro il futuro del governo. Peggio, Renzi teme che gli speculatori si stiano già muovendo per colpire l’Italia nel suo tallone d’Achille: le banche.
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Di fronte a questi presagi, negli uffici governativi - a partire da quelli di Via XX Settembre si tracciano gli scenari in vista del 5 dicembre e delle eventuali contromisure. Primo, con una vittoria del Sì all’Economia si aspettano una spinta alla crescita e uno spread - il differenziale tra Btp e Bund che misura il rischio Paese - che si ridimensiona e rapidamente torna ai livelli di quello spagnolo, che grazie al nuovo governo di Rajoy viaggia a una cinquantina di punti base sotto quello italiano. Tuttavia ai piani alti dell’esecutivo valutano ormai apertamente anche gli effetti di una sconfitta. In caso di bocciatura della riforma Boschi, si potrebbero registrare scossoni sui mercati, ma se la politica si dovesse dimostrare in grado di fornire subito una soluzione certa alla crisi, il quadro dovrebbe stabilizzarsi senza particolari danni.
Anche perché proprio i movimenti al rialzo dello spread di questi giorni fanno immaginare agli analisti del Tesoro che i listini stiano già scontando l’eventuale vittoria del No, limitandone l’impatto. I veri problemi arriverebbero invece nel caso in cui un’impasse politica dovesse aprire un lungo periodo di incertezza. A quel punto i mercati potrebbero davvero trasformarsi in una minaccia, ricreando quel mix di paura, sfiducia e speculazione che segnò l’autunno 2011.
Ma a differenza di allora - ragionano ancora i tecnici governativi - il primo problema non sarebbe lo spread, che per quanto in rialzo non dovrebbe esondare oltre i livelli di guardia grazie al quantitative easing messo in campo dalla Bce di Mario Draghi. Questa volta l’anello debole sarebbero le banche. In particolare gli istituti impegnati in complicate operazioni di ricapitalizzazione, come Monte dei Paschi e Unicredit, che potrebbero andare incontro a diverse difficoltà. Un rischio per il sistema Italia.
È questo il contesto nel quale si muove la politica. Il premier continua a ripetere che mai e poi mai si presterà a soluzioni pasticciate. Meglio, al limite, un governo Padoan “a scadenza”. Ma nel Pd cresce di ora in ora il partito della continuità. Tra gli sponsor si segnala anche il ministro Dario Franceschini, che ha già indicato in Renzi il successore di Renzi. E che non ha gradito la nuova “personalizzazione” del voto portata avanti dal leader: «Penso che sia da irresponsabili - confidava ieri in Transatlantico, chiacchierando con i deputati che lo circondavano pensare di chiamarsi fuori in caso di vittoria del No». Eppure, il capo del governo resiste. Dovesse perdere, sarebbe disposto a condurre in porto la Legge di bilancio. Nulla di più, per non prestarsi a una dannosa e logorante permanenza da sconfitto a Palazzo Chigi.
Certo, di fronte a una tempesta economica non sarà facile sfilarsi. Anche perché, come gli continua a suggerire Angelino Alfano, gestire dalla presidenza del Consiglio la trattativa per la nuova legge elettorale e la transizione a nuove elezioni - già si parla di giugno - può risultare conveniente. Di più, «è la tua assicurazione contro chi vuole annientarti». Proprio il leader Ncd è protagonista in queste ore di un clamoroso riavvicinamento con Silvio Berlusconi.
Dopo anni di gelo assoluto, i due hanno ripreso a sentirsi. E hanno anche raggiunto un’intesa di massima su una bozza di riforma elettorale da sottoporre a Renzi. Si tratta di un Mattarellum “rovesciato”, nel senso che alla Camera attribuisce circa 400 seggi con un meccanismo proporzionale (ben oltre il 25% della versione del 1993), limitando la quota uninominale a poco più di duecento scranni. Di fatto, il sistema ideale per consentire al Pd, Forza Italia e centristi di dare vita alle larghe intese dopo il voto. Renzi al momento sul punto tace.