1 - IL DESTINO (SENZA LIBERTÀ) DI SUU KYI: I COMPROMESSI NON L'HANNO SALVATA
Guido Santevecchi per il "Corriere della Sera"
Il tempo ha fatto un salto indietro a Myanmar. Aung San Suu Kyi è tornata prigioniera dell'esercito, come lo fu per quindici anni, fino al 2010 quando finalmente i generali fecero un passo indietro, non per decenza ma per convenienza. I golpisti decisero di condividere il potere dopo che le loro giunte susseguitesi per cinquant'anni avevano fatto sprofondare il Paese nel sottosviluppo e nell'isolamento. Aprirono i cancelli della villa dove la signora era stata confinata dal 1989 e le permisero di parlare a una popolazione che la adorava, in quanto figlia di Aung San, l'eroe dell'indipendenza nazionale raggiunta nel 1948.
Forse, la sintesi della sua vita, è in una frase della motivazione per il Nobel per la pace che le fu assegnato nel 1991: «Un esempio del potere di chi non ha potere». Guardando al suo viaggio tragico e tormentato, quel giudizio resta valido anche ora che l'icona (scolorita) della libertà ha 75 anni.
Il padre fu assassinato nel 1948, quando ancora non aveva potuto esercitare il potere. La madre è stata ambasciatrice in India negli anni 60, quando il Paese era già retto da una dittatura militare, nominalmente socialista.
Aung San Suu Kyi ha potuto avere una formazione cosmopolita: una prima laurea a New Delhi, la seconda a Oxford, poi un periodo di lavoro al Palazzo di Vetro dell'Onu; di nuovo in Inghilterra dove sposò un professore britannico da cui ha avuto due figli. Una vita privilegiata, lontana dalla politica.
Ma c'è il destino. Nel 1988 tornò in patria per assistere la madre morente. Pensava a un viaggio di poche settimane, ma proprio allora la Birmania fu scossa da una ribellione popolare contro la giunta. L'esercito aprì il fuoco facendo una strage. E quella donna esile ed elegante decise di esporsi: «Non posso restare indifferente». Ispirata da Martin Luther King e dal Mahatma Gandhi, organizzò un movimento per la democrazia che diventò partito.
PROTESTE CONTRO AUNG SAN SUU KYI PER IL MASSACRO DEI ROHINGYA
Lanciò appelli alla pacificazione, chiese alla gente di rispettare l'ordine e alle forze armate di riconquistare la fiducia. I generali nel 1989 la arrestarono. Nel 1991 le fu assegnato il Nobel che non poté andare a ritirare; nel 1999 non accettò la via d'uscita offertale dal regime: il marito era malato di cancro, in fin di vita a Londra e lei avrebbe potuto essere liberata per stargli vicina un'ultima volta. Un espediente per chiuderla fuori dalla patria, appena ribattezzata ufficialmente Myanmar.
Per altri dieci anni lei sopportò la prigionia con inflessibilità e grazia. Nel 2010, liberandola per dare una patina di nobiltà alla loro ritirata tattica, i generali le hanno permesso di guidare la «Lega nazionale per la democrazia» alla vittoria elettorale nel 2015; ma le hanno negato la possibilità di diventare presidentessa, con la scusa che aveva sposato un inglese e i suoi figli erano cittadini britannici. Suu Kyi da allora è stata Consigliera di Stato.
Il colpo di genio dei generali è stato di trasformare l'icona della democrazia in donna politica, costretta a fare i conti con il potere reale. E facendo questi conti, la ex pacifista ha rifiutato di spendere anche una sola parola di solidarietà per i musulmani Rohingya braccati dall'esercito, massacrati, costretti a fuggire all'estero a centinaia di migliaia tra il 2017 e il 2018. Convinta di proteggere la democrazia imperfetta e fragile, nel 2019 si è prestata a difendere la pulizia etnica per conto dei militari, davanti alla Corte internazionale dell'Aia. Ha cavalcato il sentimento nazionalista prevalente forse per prendere tempo, per consolidare la situazione ambigua. Ma quando ha trionfato di nuovo nelle elezioni dello scorso novembre, i generali hanno deciso di riportare indietro il tempo.
Non hanno più bisogno di una Premio Nobel per dare credibilità al loro potere camuffato. Troppo tardi Aung San Suu Kyi, ora che è chiusa nella sua residenza circondata dai soldati, ha chiesto al popolo di «non accettare la situazione, protestare contro il golpe».
2 - I GENERALI SENZA MASCHERA E GLI ERRORI DELLA SIGNORA
Guido Santevecchi per il "Corriere della Sera"
I generali hanno gettato la maschera della «democrazia imperfetta», per riprendere il controllo totale del potere. Ma neanche Aung San Suu Kyi, la vittima eccellente di questo ennesimo golpe birmano è innocente.
Quando le Nazioni Unite denunciarono «la pulizia etnica a fine di genocidio» compiuta dalle forze armate contro la minoranza Rohingya, la Signora rispose: «Siamo un Paese giovane e fragile che deve affrontare molti problemi, non possiamo solo concentrarci su pochi».
Secondo quel ragionamento ambiguo e cinico, se il governo civile avesse sfidato i generali chiedendo di fermare l'orrore, questi avrebbero potuto organizzare un nuovo golpe ai danni di tutto il popolo; meglio quindi chiudere gli occhi e fingere che i Rohingya non esistessero. L'equilibrismo ipocrita ha isolato il Myanmar e la «democrazia imperfetta» è stata comunque di nuovo calpestata dagli scarponi dei soldati.
I militari sanno giocare con la geopolitica. Dopo essersi fatti scudo con la Premio Nobel in disarmo, credono di potersi infilare nella sfida tra Washington e Pechino. Il generale Min Aung Hlaing, uomo di punta del golpe, è già sottoposto a sanzioni personali da parte degli Stati Uniti per il dossier Rohingya e non ha niente da perdere da una nuova crisi al buio; i suoi commilitoni possono sperare che la Casa Bianca abbia difficoltà etiche nel trovare un modo per inasprire la pressione senza far soffrire ulteriormente la popolazione.
I generali sanno che il loro Paese è strategico, i 2.500 chilometri di costa sull'oceano offrono uno sbocco importante per i progetti della Via della seta cinese. Ieri la Cina si è limitata a dire di aver «notato» il mutamento della situazione, auspicando «stabilità politica e sociale».
Xi Jinping penserà anzitutto a garantire i 21 miliardi di dollari di progetti impegnati nel Paese. Che non sono pochi neanche per la Cina. Che cosa succederà? «Il nostro è un Paese già in guerra con se stesso, pieno di armi, con milioni di persone in lotta contro la fame, un popolo diviso da spaccature etniche e religiose, il futuro è buio, temo che nessuno sarà davvero capace di controllare la catena di avvenimenti», dice lo storico Thant Myint-U.