Estratto dell’articolo di Federico Rampini per www.corriere.it
Qual è l’obiettivo strategico dietro l’attacco di Hamas contro Israele? Una prima risposta viene da Riad. «Il Regno dell’Arabia saudita – ha dichiarato il ministro degli Esteri – considera Israele responsabile, per le sue ripetute provocazioni e la privazione di diritti inflitta ai palestinesi».
Fino a 48 ore fa sembrava imminente una svolta storica in Medio Oriente, cioè il riconoscimento diplomatico di Israele da parte della più grande potenza araba. Oggi quell’evento sembra meno probabile, forse già cancellato dall’agenda del futuro prossimo. In questo senso Hamas vede alla sua portata una vittoria strategica sul piano geopolitico, a prescindere da quel che sta accadendo e accadrà sul terreno militare.
L’Arabia saudita è il soggetto più potente di tutta l’area, soprattutto dal punto di vista economico-finanziario. I suoi aiuti economici tengono a galla l’Egitto, un’economia in bancarotta. I suoi investimenti dilagano in Occidente e in Africa. Ha un leader giovane e visionario, il principe Mohammed Bin Salman, che persegue un progetto audace di modernizzazione e laicizzazione all’interno del quale viene ridimensionato il ruolo malefico del clero wahabita. Deve vedersela con il nemico storico, l’Iran, che sostiene movimenti fondamentalisti come Hamas e Hezbollah.
faisal bin farhan qin gang hossein amir abdollahia
La tragedia di questo conflitto è prima di tutto il bilancio immane e spaventoso di morti, violenze e sofferenze. Ma altre tragedie future saranno ancora più probabili, se svanisce la possibilità di una riconciliazione tra Israele e la potenza leader del mondo arabo, che doveva completare gli accordi di Abramo (l’allacciamento di rapporti diplomatici formali già avvenuto con Emirati, Bahrein, Marocco, Sudan).
L’attacco di Hamas, sostenuto dall’Iran, ha l’effetto di polarizzare due forze. Da una parte, la monarchia saudita in quanto potenza leader del mondo arabo e dei musulmani sunniti, nonché custode dei luoghi sacri dell’Islam, in queste ore sente una pressione formidabile dall’opinione pubblica musulmana. Quel mondo è stato abituato a rappresentarsi la sorte del popolo palestinese come una tragedia imputabile esclusivamente alla persecuzione e agli abusi d’Israele.
È una rappresentazione schematica e stereotipata, che nasconde molti altri aspetti: l’incapacità dei palestinesi di esprimere una leadership onesta ed efficiente; la presa di potere a Gaza di forze estremiste e autoritarie; la crescente ostilità verso i palestinesi da parte dell’Egitto (che isola Gaza con sanzioni non meno dure di quelle israeliane perché considera Hamas come un’altra versione dei Fratelli musulmani); la disaffezione di tutto il mondo arabo dalla causa palestinese che si traduce in minori aiuti da parte delle potenze del petrolio. Tant’è, quando esplode la violenza l’opinione pubblica araba non è interessata alle analisi equilibrate, vuole delle prese di posizione manichee, da una parte il Male dall’altra il Bene. Improvvisamente i margini di manovra diplomatici di MbS si restringono.
[…]
C’è la possibilità di salvare quell’accordo e cominciare a porre le basi per un Medio Oriente meno bellicoso e sanguinoso? Molti esperti in queste ore terribili ricordano che l’ultima grande guerra arabo-israliana, quella dello Yom Kippur combattuta 50 anni fa, partorì a sorpresa una grande pace: l’accordo tra Egitto e Israele firmato a Camp David cinque anni dopo, nel 1978. Certo, fu decisiva da parte dell’America una regia di alta diplomazia come il duo Nixon-Kissinger nella fase iniziale; poi però la staffetta diplomatica passò dall’Amministrazione repubblicana a quella democratica di Jimmy Carter, che portò a termine quell’accordo.
Oggi chi “osa” sognare un esito analogamente positivo per la guerra in corso, immagina due tempi: prima una sconfitta militare di Hamas, poi un nuovo assetto di governo per la striscia di Gaza che coinvolga l’Autorità palestinese (quella di Ramallah in Cisgiordania), sorretta assistita e garantita da una forza di pace multilaterale con Arabia saudita, Egitto, Emirati, nonché la benedizione di Stati Uniti ed Unione europea. Lo fa, tra gli altri, un osservatore esperto e autorevole come Bret Stephens, già direttore del Jerusalem Post e oggi editorialista de lNew York Times.
hossein amir abdollahian faisal bin farhan 1
Può sembrare un’utopia. Fra i tanti ostacoli alla realizzazione di questo sogno, c’è la profonda lacerazione politica che spacca in due sia Israele sia l’America; nonché la radicale avversione dell’Iran per qualsiasi pacificazione del Medio Oriente dalla quale il regime degli ayatollah uscirebbe come il grande sconfitto (e dietro Teheran non è difficile vedere la mano di Mosca e Pechino). Però anche nel baratro della guerra del 1973 pochi osavano immaginare la svolta del presidente Sadat e gli accordi di pace del 1978.
razzi di hamas su israele 5 A PECHINO L’ACCORDO TRA ARABIA SAUDITA E IRAN BENJAMIN NETANYAHU razzi di hamas su israele 1