Massimo Gaggi per “la Lettura - Il Corriere della Sera”
«Tecnologia e globalizzazione hanno di certo prodotto grossi cambiamenti nel mondo del lavoro, ma l’estrema disparità nella distribuzione dei redditi che stiamo sperimentando ormai da troppi anni deriva soprattutto dal nostro modo di organizzare il mercato. Con la scusa di non lasciare spazio a chi vuole più Stato, la coalizione di interessi che da decenni domina l’America ha ostacolato in tutti i modi l’adeguamento delle regole alla nuova realtà economica. E senza regole efficaci per mantenere il sistema in un equilibrio socialmente accettabile, il capitalismo non funziona».
Fin dalle prime battute dell’incontro de «la Lettura» con Robert Reich per discutere di Come salvare il capitalismo , il suo nuovo libro (uscito in questi giorni in Italia per Fazi addirittura qualche giorno prima della pubblicazione negli Stati Uniti), il celebre economista liberal dell’Università di Berkeley, ministro del Lavoro di Bill Clinton, mette le mani avanti: «Partecipo a moltissimi dibattiti sui temi più disparati, ma ogni volta, prima o poi, si finisce lì: la difesa del libero mercato da ogni interferenza esterna, niente nuove regole. Come se il mercato esistesse in natura e non fosse una creazione degli uomini».
Però il maggior dinamismo degli Stati Uniti rispetto all’Europa ce lo siamo spesso spiegato anche con la complessità delle normative in vigore e con l’alto costo del welfare nella Ue. Fin dai tempi di Guido Carli, in Italia si è discusso di «lacci e lacciuoli» soffocanti. «Una cosa — replica Reich — sono le stratificazioni burocratiche, un’altra le regole per far funzionare bene un sistema economico. Norme che a volte andrebbero addirittura alleggerite: ad esempio quelle che proteggono troppo a lungo o in modo troppo esteso certi brevetti, offrendo un vantaggio eccessivo a molti grandi gruppi, ormai talmente potenti da avere la forza di opporsi a ogni cambiamento: bollano ogni correzione come un’alterazione delle regole del libero mercato. Balle che ci beviamo ormai da decenni.
Ma non è stato sempre così nella storia americana. Da dove vogliamo partire? Nel libro cito Edward Ryan, presidente della Corte Suprema del Wisconsin che nel 1873, parlando agli universitari del suo Stato, disse: “Un giorno dovremo pur chiederci chi deve decidere: la ricchezza o l’uomo? Chi deve guidare: il denaro o l’intelletto? E gli incarichi pubblici a chi devono andare? A uomini liberi e istruiti o a servi feudali del capitale aziendale?”».
ROBERT REICH SALVARE IL CAPITALISMO
Quella però era l’America selvaggia dei robber baron , magnati dediti alla concorrenza sleale. «Certo. Poi alla fine dell’Ottocento arriva la legge antitrust, lo Sherman Act. E all’inizio del XX secolo a frenare gli abusi dei capitalisti senza scrupoli e a spezzare i monopoli fu un presidente conservatore: Theodore Roosevelt. Uno che attaccava quelli che chiamava i “malfattori delle grandi ricchezze”, sostenendo che, oltre a opprimere i lavoratori, mettevano in pericolo la stessa esistenza dello Stato».
Reich sostiene che, dopo l’era di progresso e crescita equilibrata del secondo dopoguerra, negli ultimi trent’anni abbiamo vissuto un’involuzione: «Fino agli anni Settanta il benessere si diffondeva anche tra i lavoratori più umili. Poi la svolta: oggi la sperequazione nella distribuzione dei redditi è la più acuta degli ultimi 80 anni».
Ma perché la politica non riesce più a introdurre correttivi? Perché le lobby imprenditoriali sono troppo potenti? O perché i tycoon di oggi non sono più gli odiosi padroni delle ferriere di un tempo, molto visibili nel loro mondo di acciaio e carbone, ma i «principi rinascimentali» delle tecnologie digitali dai meccanismi geniali, impalpabili e invisibili in un’economia sempre più complessa?
«Le due cose insieme: il potere si è spostato verso le élite economiche a causa della complessità tecnologica e finanziaria dell’economia. La gente fa più fatica a capire. La complessità non spiega tutto, ma consente alle grandi coalizioni di interessi di accumulare il denaro col quale nascondono il modo nel quale stanno piegando l’economia nella direzione per loro più favorevole. Fanno il loro gioco, ma lo fanno indebolendo sistematicamente la politica e l’autorità di chi fa le regole».
Dalle industrie farmaceutiche che pagano le compagnie dei medicinali generici perché non mettano sul mercato i loro prodotti a basso costo, al monopolio agro-industriale di fatto della Monsanto, agli abusi delle società che distribuiscono le connessioni a banda larga, al mercato plasmato da Amazon, nel libro di Reich si raccontano molti casi controversi e anche vere e proprie horror story del capitalismo Usa.
Ma alla fine a cambiare il mercato, a far sparire decine di milioni di posti di lavoro, è soprattutto l’evoluzione della tecnologia. Lo stesso Reich in passato aveva previsto un calo drastico dell’occupazione in molti settori e nel libro racconta di un amico che da casa sua a Tucson progetta, produce (con una stampante 3D) e vende (su internet) una macchina capace di rilevare certi elementi inquinanti nell’aria. Tutto da solo.
«È vero, sono mutamenti radicali. Ma penso ugualmente che nel valutare le nostre difficoltà di oggi, negli Usa e in Europa, stiamo dando un peso esagerato all’impatto di globalizzazione e tecnologia, mentre sottovalutiamo l’influenza della politica. I problemi che dobbiamo affrontare, a Washington come a Roma, hanno più a che fare con le decisioni politiche che con l’economia. Viviamo in società molto ricche: i margini per correggere la rotta sono ancora ampi. Ma non li usiamo. Il problema è che man mano che il potere economico si concentra al vertice della piramide, la stessa cosa accade al potere politico. Così torna la filastrocca del “giù le mani dal libero mercato”. Anche quando si tratterebbe solo di eliminare nuovi monopoli o di evitare eccessive concentrazioni nell’economia digitale».
Cresce anche un’economia in parte alternativa a quella dei grandi gruppi tradizionali: i servizi on demand forniti da molte start up a clienti che li richiedono attraverso smartphone e app. Servizi erogati da personale che lavora quando richiesto, senza rapporti stabili. Reich critica anche questo modello. La precarietà, dice, ridurrebbe addirittura la capacità di apprendere.
GENERAL MOTORS BUILDING NEW YORK
«Sì, l’eccessiva irregolarità negli orari di lavoro può provocare problemi gravi. Stress, l’impossibilità di programmare la propria vita: accantonare le risorse per mettere su casa, sposarsi, fare figli, prepararsi alla pensione. Ma la precarietà può ridurre anche la capacità di apprendere. Non ne parlo nel libro: in un articolo che ho scritto alla vigilia del Labor Day ho citato i dati di una ricerca dell’Economic Policy Institute. Lavorare in modo saltuario, a volte con turni lunghi o di notte, alla lunga riduce le capacità cognitive del lavoratore e anche dei suoi figli, inevitabilmente trascurati da chi deve accettare più lavori per sbarcare il lunario».
Quali sono le terapie possibili? Alcune delle misure proposte nel libro o sono interventi molto costosi che vengono discussi da anni, ma sembrano di difficile applicazione, come l’introduzione di un salario minimo universale, o sono innovazioni suggestive, ma tutte da inventare anche sul piano giuridico e finanziario, come la condivisione dei benefici dei brevetti tecnologici.
«Deve nascere, e spero che nasca dalla crescente consapevolezza della gente, un movimento di massa per la creazione di un nuovo sistema di contrappesi nell’interesse di quei cittadini, la grande maggioranza, che non hanno condiviso i guadagni dell’economia degli ultimi decenni. Non si può andare oltre nello schiacciamento del ceto medio. I modi possono essere diversi.
Si può tassare la ricchezza di pochi, ma si rischia di fare un’operazione statica di redistribuzione del benessere esistente anziché promuovere la creazione di nuova ricchezza. Un approccio più sensato può, allora, essere quello di condividere in modo più ampio la ricchezza futura, con misure come l’attribuzione a ogni cittadino di una certa quota dei benefici economici prodotti da quei brevetti».
Allarmi per le gravi conseguenze anche politiche della fine del ceto medio vengono lanciati da almeno 10 anni: non è successo nulla. Reich, che ha lavorato con Bill Clinton e conosce bene la famiglia, pensa che Hillary potrebbe e vorrebbe cambiare rotta?
«La politica da sola non ce la fa: servono una presa di coscienza e un’iniziativa della società. Il punto non è togliere ai ricchi per dare ai poveri con le tasse, ma darsi regole che portino verso una più equa distribuzione già nella fase di produzione della ricchezza, anziché redistribuire a posteriori. Complicato? Sì. Ma essenziale, perché nelle condizioni attuali una società non può durare. Non è una sfida per la tecnologia o l’economia: è una sfida per la democrazia».