Estratto dell’articolo di Fausto Carioti per “Libero quotidiano”
Nicolò Zanon è stato vicepresidente della Consulta sino a poche ore fa. Classe 1961, ordinario all’Università degli Studi di Milano, è stato una mosca bianca tra i giudici costituzionali. Ha molte cose da raccontare.
Per gli italiani i giudici costituzionali sono spesso creature misteriose. Lei, professore, a quale famiglia politica e culturale appartiene? Quali sono le sue idee?
«Mi lasci fare una premessa. Io penso che un giudice costituzionale abbia un solo obbiettivo: difendere le scelte contenute nella Costituzione sulla quale ha giurato, anche se dentro di sé non le condivide. […] Prendere sempre sul serio ciò che è scritto nella Costituzione è una questione di lealtà. E, mi creda, è molto meglio che far dire alla Costituzione quel che essa non dice...».
Premessa registrata. Dopo di che?
«Dopo di che […] io la mia storia la rivendico tutta. Nel 1975, all’età di 14 anni, aderii al Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile missina, sull’onda dell’emozione per l’omicidio di Sergio Ramelli. Vivevo a Biella, […] ma ebbi comunque […] un’adolescenza inquieta e periodi di coinvolgente passione politica».
Fino a che punto si spinse?
«All’inizio degli anni Ottanta mi avvicinai alla Nuova Destra guidata da Marco Tarchi, movimento culturale che tentava di ammodernare i riferimenti ideali della destra italiana. Leggevamo di tutto, scrivevamo, organizzavamo convegni. Anche quelli furono anni carichi di passione.
Nel frattempo, dopo la laurea a Torino, iniziavo la carriera universitaria nel settore del diritto costituzionale. Procedendo per aggiunte (non per sottrazioni o abiure!) ho così rinforzato la mia fiducia nella democrazia rappresentativa e nel principio della separazione dei poteri, condizioni per la salvaguardia dei diritti di libertà dell’individuo».
Un percorso anomalo per un giudice costituzionale. Oggi come si definisce?
«Mi considero un tranquillo conservatore. […] ».
Eppure a nominarla giudice costituzionale fu Giorgio Napolitano, nove anni fa. Com’è che accadde?
«Il presidente Napolitano era un uomo di straordinaria curiosità intellettuale e di grande larghezza di vedute. Il rapporto con lui si era consolidato mentre ero consigliere laico del Csm […]. Quando mi telefonò per chiedermi la disponibilità alla nomina mi disse che era suo dovere “assicurare la presenza in Corte di tutte le aree culturali”».
Nove anni dopo, è andata come lei immaginava?
«Il lavoro di giudice costituzionale […] può essere il più affascinante del mondo per chi ama il dibattito delle idee, la volontà di approfondire le questioni e di affrontarle da punti di vista diversi. In più, si sente forte il senso di responsabilità, perché le decisioni della camera di consiglio della Corte possono avere effetti sull’intero ordinamento e sul destino di tante vicende umane».
[…] Negli anni in cui è stato lì, la Consulta ha fatto 2.374 pronunce, delle quali lei è stato relatore in 180 casi. Quali le sono rimaste più impresse?
«Mi sono rimaste impresse soprattutto le ferite, e quelle recenti bruciano di più. Mi vengono in mente due sentenze del 2023, sulle quali ho dissentito fortemente, ma invano».
È disposto a parlarne? […]
«Credo di ottemperare a un imprescindibile dovere di trasparenza se spiego perché non ero d’accordo. La prima decisione riguarda il tema dell’immigrazione. La legge Bossi-Fini stabiliva che il permesso di soggiorno per lavoro non può essere rinnovato a uno straniero, tra l’altro, laddove egli venga condannato per il reato di spaccio di stupefacenti o per quello di commercio di merce contraffatta. E la Corte ha dichiarato incostituzionale questo cosiddetto “automatismo ostativo”, in nome delle ragioni dell’accoglienza e dell’integrazione. Ha stabilito che si deve valutare caso per caso».
Dov’era il problema per lei?
«Nel 2008 un chiarissimo precedente della stessa Corte costituzionale aveva stabilito che una tale scelta legislativa non è affatto irragionevole, perché è facoltà del legislatore stabilire quali sono le regole che consentono la permanenza legale nel territorio dello Stato. La mia Corte, nel 2023, ha deciso in senso opposto a quella del 2008...».
La seconda ferita?
«Deriva dal caso Regeni. Vicenda atroce, nella quale l’Egitto ha protetto fino in fondo i suoi agenti, probabili responsabili dell’omicidio e delle torture, negando ogni cooperazione con le nostre autorità ed impedendo persino che ad essi fosse notificata la convocazione a giudizio. Comportamento riprovevole, certo, che avrebbe impedito la celebrazione del processo. La Corte invece ha voluto consentirla, anche in assenza degli imputati».
E lei era contrario. Perché?
«Perché la nostra Costituzione, all’articolo 111, contiene una garanzia fondamentale, importantissima: in principio, il processo deve svolgersi in presenza dell’imputato, e in contraddittorio con questi. Capisco il desiderio di vedere a tutti i costi a processo gli autori di questo efferato omicidio, ma far ricadere sugli imputati la mancata cooperazione del loro Stato è un precedente pericoloso.
Così come lo è affermare, in sostanza, che più è grave il reato da giudicare, meno intense sono le garanzie di cui può beneficiare l’imputato. Non ho problemi a dire che per me è stata una vera disfatta».
In passato lei ha sostenuto che la Corte costituzionale deve ammettere l’opinione dissenziente, come avviene nella Corte suprema degli Stati Uniti e negli analoghi organismi tedesco e spagnolo. La pensa ancora così?
«Certo, come dicevo poco fa c’è un’esigenza di trasparenza: escono spesso “spifferi” che raccontano di una Corte divisa. Perché non consentire che l’opinione pubblica conosca i motivi di questa divisione? Inoltre, […] mostrare che esistono ragioni che avrebbero potuto condurre verso una decisione diversa farebbe progredire la sensibilità per il dibattito costituzionale, senza intaccare l’autorevolezza della sentenza e dell’organo che l’ha emessa.
Nei Paesi che conoscono l’opinione dissenziente, è accaduto non di rado che un’opinione rimasta in minoranza sia divenuta, anni dopo, l’opinione dominante della Corte».
MATTARELLA CORTE COSTITUZIONALE
Restiamo sul tema del dissenso: è corretto dire che i giudici costituzionali con la sua estrazione politica e culturale sono una rarità?
«Direi proprio di sì. Mi è accaduto spesso di soffrire di solitudine in camera di consiglio...».
E come se lo spiega?
«Intanto, mi pare che non sempre gli schieramenti parlamentari che definirei “conservatori” abbiano avuto la necessaria consapevolezza della crucialità del ruolo della Corte […]. Quanto alle nomine del Capo dello Stato, non sarebbe corretto che proprio io le commentassi...».
Questo è un problema per gli equilibri istituzionali italiani?
«Ovviamente lo è. Non si tratta affatto di “conquistare la Corte” […]. Si tratta, semmai, di non permettere che diventi un monolite culturale […]».
NICOLO ZANON helmy uhsam magdi ibrahim abdelal sharif