Lorenzo Cremonesi per corriere.it
«Dichiaro il mio desiderio sincero di cedere le mie responsabilità al prossimo esecutivo non più tardi della fine di ottobre». Con queste parole nella serata di mercoledì Fayez Sarraj ha rassegnato le dimissioni da premier del governo di Accordo Nazionale a Tripoli. Poche frasi, precise e pacate come suo solito.
È il suo stile, ha sempre cercato di mostrare calma e controllo nel caos in cui è scivolato il suo Paese sin dalla fine della dittatura di Muammar Ghaddafi nel 2011. Sarraj esprime la speranza che per la fine del mese prossimo siano ripresi e concretizzati di dialoghi per la nascita di un governo unitario tra Tripolitania, Cirenaica e le zone desertiche del Fezzan. Entro quel periodo si augura anche che il nuovo esecutivo sia in grado di eleggere il nuovo premier destinato a sostituirlo.
Del resto, le dimissioni di Sarraj erano nell’aria da mesi. Da lungo tempo questo ingegnere 59enne prestato alla politica esprimeva l’intenzione di lasciare. Ma la Libia resta un Paese tutt’altro che pacificato. Il dialogo tra Tripolitania e Cirenaica è minacciato soprattutto da Khalifa Haftar, il comandante dell’autoproclamato Esercito Nazionale Libico che da Bengasi continua a sperare di conquistare l’intero Paese manu militari.
Il peso degli interventi armati stranieri – prima di tutto quelli turco, egiziano, emiratino e russo – continuano a rappresentare gravi fattori di destabilizzazione. Sarraj era stato eletto nel 2015 ai colloqui di Skhirat nel Marocco per tentare di unificare il Paese con il sostegno delle Nazioni Unite. L’Italia inizialmente l’aveva sostenuto in toto. Ma negli ultimi anni molto di meno. Oggi lui getta la spugna lasciando il lavoro a metà. Le sorti del Paese restano del tutto incerte.
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