Lettera di Ferdinando Proietti
Caro Roberto,
mi obblighi su Dagospia a un ricordo privato di Rossana Rossanda legato soprattutto alla mia esperienza politico e giornalistica al Manifesto in quei primi anni settanta: per affetto, stima e amicizia antica obbedisco.
Mi obblighi, nonostante quest’ultimo evento luttuoso per tanti (bravi) giornalisti e “amici” della scomparsa è stata l’ennesima l’occasione - twittando garruli pure sui social in assenza di necrologi a mezzo stampa -, per sfilare, dolenti, sul black carpet dell’epitaffio agiografico.
Al fine ultimo di simulare una intimità con la cara defunta, a suo modo famosa. Ben altra cosa dei tradizionali e scrupolosi obituaries cari alla stampa anglosassone. Ma è inutile versare lacrime sui “coccodrilli” d’antan dimenticati negli archivi polverosi della stampa che fu.
Nei miei anni brevi al Manifesto, impegnati e carichi di speranze (tradite), ahimè sono riuscito a strappare a Rossana soltanto due mezzi sorrisi e qualche mezza confidenza. E’ colpa mia (e di altri redattori) se non siamo riusciti penetrare nella solida corazza del privato di Rossana e nel respingere il magnetismo intellettuale che lei spargeva? Forse.
rossanda pintor redazione manifesto rossanda pintor castellina
Anche con Luigi Pintor, il direttore che prima di morire si paragonò all’inetto capitano spagnolo Dominick che finì prigioniero di se stesso, i rapporti con Rossana non furono sempre idilliaci. Né con gli altri padri fondatori: Lucio Magri, Aldo Natoli, Luciana Castellina, Valentino Parlato.
Sin dal primo numero (ne furono vendute 100 mila copie) Luigi era convinto che il quotidiano non dovesse “supplire” alla costruzione di una nuova sinistra-partito bensì “offrire un strumento di conoscenza, d’intervento e di mobilitazione”.
Ma tradì subito questo principio schierandosi nel 1971 per la presentazione di liste del Manifesto alle elezioni politiche che si rivelarono un micidiale flop. Rossana era per l’astensione. E aveva ragione.
Poi le parti s’invertiranno e si complicheranno: dai rapporti con gli altri gruppi extraparlamentari; al giudizio sulla lotta armata soprattutto al momento dell’uccisione di Moro a opera delle Br.
Per Rossana leggendo i loro comunicati sembrava di sfogliare “l’album di famiglia” dei comunisti anni Cinquanta. E a spaccare il corpo redazionale del Manifesto provvidero pure l’unificazione con il Pdup e il ritorno alla casa madre del Pci.
rossana rossanda e aldo natoli
Nel volume sulla storia del Manifesto di Aldo Garzia, “Da Natta a Natta” (Edizioni Dedalo), è ben raccontata la vicenda umana e politica dei moschettieri rossi del Manifesto.
E in quella compagnia di eretici (espulsi dal Pci per antistalinismo: “facemmo la cosa giusta, ma non cademmo nel vuoto bensì nelle braccia del movimento”, disse una volta), l’aristocratica ragazza del secolo scorso - che affascinò Palmiro Togliatti per la sua cultura europea -, intimidiva molti di noi.
Redattori e impiegati (con pari paga operaia anche se i fondatori potevano far ricorso alla pensione di parlamentare), che si mostravano poco riverenti nei confronti dei padri carismatici di quel piccolo quotidiano comunista.
Né ho mai capito se Rossana, educata al bon ton della politica colta e alta di scuola marxista coltivata nei quartieri bene tra Pola, Milano, Roma e Parigi, fino a che punto tollerasse che in quelle stanze di via Tomacelli, sede del giornale, “ogni reverenza era bandita, la libertà o licenza sconfinavano piacevolmente nell’anarchia”.
A ricordarlo è stato il suo direttore, Luigi Pintor. E anche gli amori sbocciavano senza conoscere età o ruolo politico al passo con la rivoluzione sessantottina.
Quando il Migliore, Togliatti, le chiese d’incontrare e conoscere il filosofo Jean Paul Sartre, lei – a rivelarlo è stata la sua amica del cuore Luciana Castellina -, organizzò la cena al ristorante romano “Ranieri” frequentato da Gianni Agnelli e altri padroni del vapore.
Una volta si sorprese nell’incontrami in un salotto della capitale in cui politica e spettacolo tenevano banco. “Che ci fai qui?”, mi chiese regalandomi un sorrisetto. E in quell’occasione mondana, dove in tv andava in onda la premiazione della mostra del cinema di Venezia, mostrò tutto il suo candore (o snobismo) nello scoprire che le donne erano ancora bardate in lungo e gli uomini in smoking.
Chissà, pensai allora, forse non aveva torto il filosofo Adorno nel chiosare pungente: “gli intellettuali sono gli ultimi nemici dei borghesi e, nello stesso tempo, gli ultimi borghesi”.
Ma Rossana aveva la dolcezza delle sirene nell’incantare e rimettere a posto le “tessere” del suo privato e quelle della politica nel tumultuoso vissuto della redazione.
“Non sono mai stata bella e non sono stata mai una simpaticona e non sono fredda, ho sempre frequentato le passioni”, diceva di sé Rossana che bella lo era davvero.
rossana rossanda e aldo natoli
Già, il Manifesto quotidiano di cui sono stato testimone involontario (fallibile e disincantato degli accadimenti vissuti) ma senza voler dare qui forma a una esperienza politica che riguarda altri storici.
“Mi trovo dopo trent’anni (con riferimento alla sua passata esperienza all’Unità, ndr) in un giornale povero, simile di nuovo a una comunità o a una scuola, ma questa volta con regole proprie e senza severi maestri. Maestro involontario questa volta sono io”, confessa Luigi Pintor nel suo splendido libro di memorie e di squarciamenti cioriani, “Servabo” (Bollati Boringhieri 1991).
Per Giampiero Mughini “il più bel libro scritto da un comunista sul loro essere stati comunisti”, giudizio che condivido appieno. Il vento del Sessantotto, il ritorno all’università (studente&lavoratore) e l’amicizia di Luigi Pintor e di sua moglie Marina mi spinsero in quell’”avamposto nel deserto dei tartari”.
Un salto nel buio. Dopo cinque anni di felice “abusivismo” lasciavo il Corriere dello Sport diretto dall’ex comunista, Antonio Ghirelli, e dato alle stampe nell’ex tipografia Uesisa in via IV Novembre da tanti colleghi generosi di consigli.
In quel giornale sportivo dove ebbi la fortuna di vivere(tra l’altro) a bordo ring la grande stagione del pugilato (Benvenuti, Mazzinghi, De Piccoli, Arcari, Rinaldi, Burruni…) si respirava anche uno stantio e plumbeo tanfo (ideologico) lasciato in eredità dal Littoriale fondato dal fascistone bolognese, Leandro Arpinati.
Fui arruolato al Manifesto da Luigi forte di una buona esperienza giornalistica e sia pure scarsa solidità ideologica. Così, insieme a sua figlia Roberta, salii per la prima volta le scale del palazzo Ina di via Tomacelli per partecipare, alla luce di qualche candela, alla prima riunione di redazione. E’ l’avvio della mia conoscenza (incompiuta) con la ragazza del secolo scorso.
Nel partecipare oggi alla cerimonia del suo addio,
è difficile non riconoscerle la grande autorevolezza intellettuale anche fuori dall’Italia. E non si può non perdonare la sua fede incrollabile nel comunismo.
BARBARA MASTROIANNI E FERDINANDO PROIETTI
Un credo, faccio mie le parole del saggista e poeta polacco, Czeslaw Miloz, in cui Rossana resterà “prigioniera” fino agli ultimi giorni della sua lunga esistenza.
Già, allontanarsi dalla fede (comunista), ha osservato il saggista Tony Judt, che invece l’aveva abbandonata, a volte “si perde più di quel che si guadagna”.
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