1. IMMIGRAZIONE, L'ALLARME DEI SERVIZI: PRONTI A PARTIRE IN 20 MILA
Fiorenza Sarzanini per il ''Corriere della Sera''
Allentare i controlli e consentire ai migranti di partire.
È questa l' arma di ricatto che la Libia può utilizzare per ottenere nuove concessioni. Ma è soprattutto lo strumento di pressione che il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, ormai alleato principale del capo del governo di Tripoli Al Sarraj, per trattare con l' Europa. Ecco perché il governo italiano ha riattivato le relazioni diplomatiche, ma anche l' attività di intelligence affidata all' Aise, nel Nord Africa. E la ministra dell' Interno Luciana Lamorgese sta gestendo personalmente questa fase di uscita dall' emergenza coronavirus nella consapevolezza che il ritorno in mare delle navi delle Ong potrebbe far ricominciare gli sbarchi sulle nostre coste, anche se i porti continuano ad essere chiusi.
Secondo gli ultimi report ci sarebbero almeno 20 mila stranieri pronti a salpare. Persone che in questi mesi di lockdown mondiale si sono affidati alle milizie e ai trafficanti in attesa di trovare un mezzo su cui imbarcarsi. La convinzione degli esperti è che i viaggi, adesso che è stata superata la fase peggiore della pandemia, potrebbero riprendere a ritmo elevato. Prova ne sia che moltissime persone sono già riuscite a partire: l' ultimo bollettino del Viminale parla di 5.461 approdate fino a ieri nonostante la sospensione delle attività delle organizzazioni non governative, a fronte dei 1.878 arrivati nel 2019. Tra loro anche molti tunisini - sono 818 - che arrivano con gommoni e pescherecci e approdano soprattutto sulle spiagge.
Ieri le autorità maltesi hanno autorizzato lo sbarco dei 425 migranti che si trovavano da 40 giorni a bordo di quattro barconi turistici affittati dal governo de La Valletta per tenerli al largo dell' isola durante la pandemia da coronavirus. «Siamo stati costretti perché minacciavano l' equipaggio», ha sostenuto il premier Robert Abela, prima di sollecitare una redistribuzione gestita dall' Europa. E potrebbe essere proprio questo il primo banco di prova di quello che potrebbe accadere nelle prossime settimane.
Dopo la Sea Watch, che ha ripreso l' attività di pattugliamento e soccorso due giorni fa, anche altre organizzazioni non governative hanno deciso di tornare in mare e questo fa presumere che riprendano gli sbarchi o comunque le richieste di approdo così come accadeva nei mesi scorsi. «Siamo finalmente in viaggio, nei tre mesi passati a Messina per adeguarci alle misure anti Covid 19, le istituzioni non hanno garantito i soccorsi in mare e, dunque, «a nostra presenza è più che mai necessaria», è scritto nel tweet postato da Sea Watch. Un' attività che l' Italia non sembra aver intenzione di agevolare.
Proprio in queste ore il governo ha deciso di riattivare la trattativa con Tripoli offrendo la consegna dei mezzi e degli aiuti che erano già stati promessi. Oltre alle motovedette e agli altri strumenti per il controllo delle coste, l' Italia si è detta disponibile a trattare la fornitura di apparecchiature utili a garantire la sorve-glianza delle frontiere interne, così come i libici chiedono ormai da anni.
2. TELEFONATA CONTE-AL SISI L'EGITTO CHIEDE LA PACE PER «SALVARE» HAFTAR
Lorenzo Cremonesi per il ''Corriere della Sera''
È da una posizione di estrema debolezza che Abdel Fattah al Sisi cerca adesso di rilanciarsi a ruolo di mediatore nel conflitto libico. La sua nuova iniziativa per negoziare il cessate il fuoco tra le forze di Khalifa Haftar in Cirenaica e la pletora di milizie alleata del premier Fayez Serraj in Tripolitania - e che raccoglie «l' attenzione» italiana - ha un difetto fondamentale: manca l' intesa, o almeno il dialogo, con Ankara.
Ieri il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il presidente egiziano Al Sisi si sono parlati al telefono (tra gli argomenti, anche il caso Regeni, ndr ). L' Italia è «favorevole», si legge in una nota, «a iniziative condivise per la soluzione politica». E sempre in serata, anche l' Onu, con il portavoce della missione libica, si è detta favorevole all' iniziativa di pace del Cairo.
Ma è un' impresa che si annuncia durissima. I rapporti tra il presidente egiziano e l' omologo turco, Recep Tayyip Erdogan, sono pessimi da tempo. E infatti Tripoli ha già rifiutato ogni dialogo. Le sue milizie più attive, che fanno capo a Misurata, sono adesso posizionate per conquistare la cittadina di Sirte. Se ci riuscissero, e ciò potrebbe avvenire presto, porrebbero le premesse per occupare l' intera Cirenaica e primi tra tutti i poli petroliferi e i giacimenti di gas distribuiti tra Ras Lanuf, Brega e Zuetina. In sintesi, la totale sconfitta del fronte pro-Haftar, sostenuto negli ultimi anni da una serie di alleati molto eterogenei che vanno dal Cairo a Mosca, sino agli Emirati Arabi e Parigi.
Per comprendere il problema, occorre tenere in mente che i giochi, almeno per il momento, sono abbastanza chiari in Libia. Haftar, che il 4 aprile 2019 aveva lanciato un proditorio attacco per conquistare Tripoli manu militari boicottando così i piani di pace mediati dall' Onu e con la piena adesione italiana, da pochi giorni è stato completamente battuto. Le sue forze armate sono allo sbando. La sua morsa su Tripoli si è sfaldata. I suoi uomini sono fuggiti da Tarhouna, da dove aveva iniziato la sua penetrazione militare in Tripolitania. Due settimane fa Putin aveva inviato una decina di vetusti aerei da guerra dell' epoca sovietica per garantire la ritirata ordinata di alcune centinaia di mercenari russi della compagnia di contractors Wagner dalla cittadina di Bani Walid.
Ora sono concentrati nella grande base area di Jufra.
Diventa dunque ovvio che qualsiasi tentativo di mediazione in Libia non può non includere Erdogan, da novembre il maggior sostenitore di Serraj. Ma qui i giochi si fanno difficili. Erdogan è legato al campo dei Fratelli Musulmani, ossia ai massimi nemici di Al Sisi, che questi defenestrò con il colpo di stato contro l' ex presidente Mohammed Morsi nel 2013. Egitto e Turchia rappresentano in poche parole i due poli opposti che da tempo si fanno la guerra nel campo sunnita. Ancora una volta i libici devono fare i conti con forze che operano dal di fuori dei loro confini.