Simonetta Fiori per la Repubblica
Più che la casa di un rivoluzionario, sembra l’interno progettato da un designer, con la poltrona di pelle délabré, il parquet a listoni robusti, e quegli stivali tirati a lucido che non sfigurerebbero in una pubblicità del lusso. Siamo all’Avana, nel febbraio del 1964, nell’appartamento di “Barba Massima”, come lo chiama nel suo diario Giangiacomo Feltrinelli.
L’editore è venuto a Cuba per realizzare un nuovo successo internazionale: le memorie di Fidel Castro. Con lui è la moglie Inge, brillante fotoreporter che velocissima con la sua Rolleiflex cattura scatti ovunque. «Non credo esistano altre fotografie del leader in pigiama», racconta Inge nella sua casa milanese. «Andavamo da lui la mattina molto presto e lo trovavamo ancora con la giacca da camera».
Lui voleva affidarvi le sue memorie?
«Sì, ci aveva scelto tra tanti editori internazionali. Ma all’inizio non fu facile avvicinarlo. Eravamo ospiti del governo in una fantastica villa d’un barone dello zucchero, la Casa di Protocollo numero uno, la stessa che aveva ospitato il potente ministro sovietico Mikojan.
E per una settimana aspettammo invano un suo cenno. Tanto che una mattina convinsi Giangiacomo ad andare al mare con la jeep. E proprio quel giorno si presentò il líder máximo nella sua divisa mimetica. Ci avrebbe scherzato sopra al telefono: ma come, io vengo a trovarvi e voi sparite?».
Giangiacomo se la prese?
«Voleva quasi ammazzarmi. Per fortuna Fidel tornò da noi una seconda volta. Al principio rimase deluso da Giangiacomo che non aveva l’allure da borghese riccone. “Ma è proprio lui il miliardario?” continuava a chiedere ai suoi che riuscirono a rassicurarlo.
Parlarono di tutto, della produzione agricola e della crisi dell’Ottobre rosso, di America Latina e dei contrasti con gli Stati Uniti. E poi ci diede appuntamento a casa sua, la mattina molto presto».
Per questo lo trovaste in pigiama.
«Sì, un pigiama borghese, molto curato nelle cuciture sul polsino e sul colletto della camicia. Era un uomo elegante, con le lunghe mani affilate da aristocratico spagnolo. Anche di primo mattino fumava dei sigari Cohiba molto sottili che ne accentuavano il fascino. La sua voce era invece deludente: una tonalità molto alta, quasi effeminata, che contraddiceva le pose da macho».
Di cosa parlaste?
«Il dialogo era esclusivamente con Giangiacomo. Io non ero considerata, se non come appendice. Avevo l’impressione che fosse anche impaurito dalle donne».
Perché?
«Ricordo che Giangiacomo lo criticò per la politica ostile ai gay: volete creare il mondo nuovo e vi comportate da persecutori? E lui fece un discorso sulla gioventù cubana rovinata da un mammismo impregnato di cattolicesimo. Accusava le madri di un eccesso di invadenza nella vita dei figli. E le donne risaltavano nel suo racconto come figure forti e castratrici».
Feltrinelli gli domandò anche che tipo di donne gli piacesse.
«Sì, vero. Rispose con una faccia marpionesca che gli piacevano “fini, spirituali, dolci”. In realtà il suo genere era la Lollobrigida ».
Raccontava di sé, del suo privato?
«No, tutt’altro. La sua vita era solo la revolución. Parlava di economia e di marxismo ma non era un comunista teorico: al contrario appariva superficiale e velleitario ».
Impietoso appare il giudizio annotato da Feltrinelli sul suo diario: “impulsivo”, “retorico”, “ideologicamente confuso”, “incapace di un pensiero forte e organizzato”.
«Sì, così. E non sapeva nulla neppure di letteratura. Un ruolo istruttivo importante l’avrebbe svolto García Márquez, che gli fece conoscere la narrativa sudamericana. Il loro rapporto era stravagante, complice ma anche competitivo. Una volta ho scritto che insieme mi ricordavano Federico il Grande e Voltaire. In realtà Gabo non era Voltaire. E Fidel non era Federico il Grande».
Erano animati da gelosia reciproca?
«Sì, erano entrambi Re. E quando la fama ne accentuò smisuratamente l’ego, Gabo non reggeva la presenza di Fidel, che anche fisicamente lo sovrastava».
Hobsbawm ha scritto che «nessun capo nel secolo breve ebbe ascoltatori più entusiasti di questo uomo barbuto con la mimetica sgualcita che parlava in modo assolutamente confuso». Al di là delle riserve, anche voi ne subiste il fascino.
«Io ero stata a Cuba la prima volta nel 1953. Uno spettacolo deprimente: alberghi di lusso, bordelli e bambini in stracci, quasi morenti. Una povertà estrema, come quella di Calcutta. In pochi anni Castro era riuscito a trasformarla, puntando sull’educazione e sulla salute della popolazione. Nel 1964 trovai Cuba completamente cambiata».
Però poi prevalsero gli aspetti illiberali.
«A Castro non perdonerò mai l’assassinio di Orlando Ochoa, l’eroe dell’Angola. Ma non concordo con la definizione di regime».
Nella vicenda politica di Giangiacomo la figura di Castro ebbe un impatto fondamentale, anche deflagrante.
«Sì, nella prima fase – gli anni tra il 1964 e il 1965 – prevaleva l’interesse dell’editore all’inseguimento del grande libro. La seconda fase dal 1967 al ‘70 fu un’altra cosa, che attiene più alla militanza politica di Giangiacomo ».
Fu Castro a ispirargli l’idea di fare della Sardegna la “Cuba del Mediterraneo”?
«Non credo che Castro sapesse dov’era la Sardegna, ma non escludo che ne abbiano parlato. Però io non posso saperlo: allora mi ero allontanata politicamente da Giangiacomo».
E le memorie di Castro?
«Fidel divenne più esigente con se stesso. E non ebbe il tempo sufficiente per concludere l’intervista, cominciata con Giangiacomo e proseguita con Valerio Riva. Del libro, alla fine, non se ne fece niente».