Fausto Carioti per “Libero quotidiano”
I sondaggi e le reazioni che sta ricevendo anche in casa (l'umore dei candidati del Pd va dal preoccupato all'inferocito) dicono che la strategia elettorale di Enrico Letta, così schiacciata a sinistra, è sconclusionata e autolesionista. Eppure un senso, almeno all'origine, lo ha avuto.
È la decisione di aggredire e prosciugare il bacino elettorale dei Cinque Stelle per ridurre all'irrilevanza il loro movimento, presa dal segretario nel momento in cui ha deciso che non era il caso di ricomporre il rapporto con Giuseppe Conte, rimasto con la pistola fumante in mano dinanzi alla salma del governo Draghi.
«Letta scelse di andare a caccia dei voti del M5S, e non di quelli di Renzi e Calenda», spiegano ora al Nazareno, «per due ragioni molto semplici: lì ce n'erano molti di più da prendere, e il movimento di Grillo pareva destinato all'estinzione».
Tutto vero. Un mese fa, nella media dei sondaggi, a Conte e ai suoi era attribuito il 10,1% delle intenzioni di voto, in calo continuo dal settembre del 2019. Era facile, insomma, immaginare un M5S facile preda del Pd, se questo avesse fatto le mosse giuste.
PROMESSE MIRATE
Per agevolare la transizione dell'ex «punto fortissimo di riferimento di tutte le forze progressiste» (Zingaretti dixit) tra le salme della politica, Letta ha presentato un programma di governo fortemente spostato sui temi dei Cinque Stelle, ossia la crociata contro i combustibili fossili ed aiuti economici massicci alle famiglie più povere. Tanto da inserire, tra le promesse elettorali, un incremento del reddito di cittadinanza in favore dei nuclei numerosi o con figli minorenni e la fornitura, a tutte le «famiglie con redditi medi e bassi», di metà dell'energia elettrica in bolletta «a costo zero».
Quindi ha imbarcato sul vascello del Pd, assieme a tanti ultrasinistri ed estremisti dell'ecologismo, Luigi Di Maio e i suoi, confidando che lo aiutassero a svuotare il serbatoio elettorale del M5S. Temi ed alleati scelti soprattutto per fare presa sugli elettori delle regioni del Sud, le uniche nelle quali i Cinque Stelle ancora hanno consensi rilevanti. Ma il disegno, ad oggi, risulta completamente fallito. Conte e i suoi non solo sono ben lontani dall'estinzione, ma recuperano consensi.
Il sondaggio Swg diffuso ieri attribuisce loro l'11,6% dei voti, in aumento di 1,2 punti rispetto agli inizi di agosto: un trend opposto rispetto a quello del Pd, che cede un punto secco ed è sempre più distante da Fdi. Mentre prossimo all'irrilevanza risulta essere Impegno Civico, il parti tino di Di Maio, che arranca all'1% e addirittura arretra (era all'1,2 all'inizio del mese). Gli altri istituti registrano numeri simili.
elly schlein giuseppe conte enrico letta
Nel Mezzogiorno, i Cinque Stelle si stanno rivelando avversari solidi. Nulla a che vedere con quel 50% dei voti che riuscirono a mietere nel marzo del 2018, per carità. Ma valori che in alcune aree si avvicinano comunque al 20%, «con picchi particolarmente alti», dicono ringalluzziti gli uomini di Conte, «a Napoli, Palermo e ovviamente in tutta la Puglia».
L'accoglienza calorosa che quelle piazze riservano all'ex premier sembra confermare il nuovo equilibrio raggiunto dal suo movimento: percentuali umilianti, pure sotto al 5%, nelle regioni settentrionali, ma seconda forza dietro Fdi in zone, anche importanti, del Sud. Un partito definitivamente meridionalizzato, insomma, grazie anche alla promessa di rendere ancora più generoso il reddito di cittadinanza.
Segno che sulla spesa sociale facile, almeno laggiù, i Cinque Stelle sono ritenuti "garanti" più affidabili del Partito democratico, e che le parole e la faccia di Conte piacciono più di quelle di Letta. Mentre Di Maio, schierato per portare l'attacco in quei territori, non pare in grado di impensierire nessuno. Rivelatosi inutile ai fini della cancellazione dei grilli- -' ni, lo schiacciamento a sinistra è riuscito comunque ad impedire che il Pd potesse contendere voti in modo credibile al polo centrista di Carlo Calenda e Matteo Renzi, avvalorando quello che l'ex sindaco di Firenze ripete ogni giorno: «Letta le sta sbagliando tutte».
APPUNTAMENTO AL 26
Non è finita, ovviamente. Al verdetto manca quasi un mese, ma nel Pd c'è già chi si fa scappare ragionamenti come questo: «Nel 2018 i sondaggi indicavano il partito di Renzi intorno al 22-23%, e finì con il 18%. Nel 2013 il Pd di Bersani veniva fotografato al 30%, ma alle urne prese il 25%. E se anche stavolta tra sondaggi e voto reale si registra la stessa differenza?». Paure e mugugni che nessuno ora rende pubblici, perché sarebbe come darsi la zappa sui piedi.
Ma «di certo», avvertono lì dentro, «dopo il 25 settembre il pentolone dovrà essere aperto e tutto dovrà uscire fuori». La freddezza che i ministri Lorenzo Guerini e Dario Franceschini (agli antipodi rispetto al pasdaran Di Maio) stanno mantenendo riguardo ai temi elettorali di Letta non fa presagire nulla di buono per il segretario. In caso di batosta, avranno ottimi motivi per chiedere la sua testa sia quelli che sino all'ultimo gli hanno chiesto di allearsi con Conte, come il vicesegretario Beppe Provenzano, Andrea Orlando e Goffredo Bettini, sia i moderati come Guerini, che guardano alla ricomposizione con Renzi e Calenda e puntano a candidare Stefano Bonaccini alla segreteria.
GIUSEPPE CONTE CON ENRICO LETTA