Ugo Magri per “la Stampa”
Non sarà il Quirinale a compiere la prima mossa del dopo-voto. Spetterà semmai al premier valutare con calma l'esito del referendum, e ancor di più quello delle Regionali, per decidere se proseguire o meno il suo cammino. Casomai Giuseppe Conte volesse gettare la spugna (periodo ipotetico del secondo tipo, cioè impossibile da valutare al presente), toccherebbe a lui informarne il capo dello Stato, e nelle dovute forme del galateo costituzionale; ma fino a quando Conte riterrà possibile tirare avanti, Sergio Mattarella non potrà impedirglielo, tantomeno sarà in grado di imporgli le dimissioni.
Dovrà eventualmente attendere che vi provvedano le Camere, attraverso lo strumento della mozione di sfiducia al governo; o in alternativa che la maggioranza commetta suicidio in qualche incidente parlamentare, sempre possibile visto il nervosismo tra i Cinque stelle. Allora sì che il presidente diventerebbe parte attiva della crisi, e sarebbe tenuto a farlo nonostante questo passaggio storico sia il meno favorevole in assoluto: con il Covid di nuovo aggressivo, con la manovra 2021 da modellare, soprattutto con il piano di aiuti da sottoporre all'Europa entro metà del prossimo mese.
Arduo immaginare che un personaggio incline alla prudenza, quale Mattarella certamente è, desideri avventurarsi in un tale ginepraio di difficoltà. Difatti non risulta affatto l'esistenza di un «piano B», né di contatti già avviati dal Quirinale per fronteggiare un improvviso collasso della maggioranza. Chi frequenta il Palazzo è a dir poco scettico sulla possibilità di cambiare formula per la terza volta in due anni e mezzo. Perfino sostituire qualche ministro sarebbe un salto nel buio, figurarsi individuare un degno sostituto di Conte.
Pur di rientrare nel gioco da cui si era auto-escluso, Matteo Salvini ammicca da tempo all'ipotesi di governo Draghi, sebbene il diretto interessato tale non risulti. Comunque sia, è materia che attiene alla libera dialettica delle forze politiche, nella loro responsabilità. Mattarella evita di intromettersi e mantiene, come bussola, il testo scritto della Costituzione.
A questo riguardo non è sfuggito il «suggerimento» di Giorgia Meloni, leader dei Fratelli d'Italia, che esorta il presidente a sciogliere le Camere qualora dovesse verificarsi un «cappotto» alle Regionali. Non è, va detto, una tesi del tutto campata in aria. In anni lontani fu sostenuta da un costituzionalista, Costantino Mortati, che con i suoi manuali ha formato generazioni di studenti.
mario draghi al meeting di rimini 5
Qualora la distanza tra elettori ed eletti diventasse eccessiva, sosteneva l'illustre giurista, il presidente della Repubblica potrebbe indire nuove elezioni per ristabilire un legame più stretto tra rappresentanti e rappresentati. Ma le obiezioni sono molteplici. La Costituzione non è affatto chiara al riguardo. Nonostante il magistero di Mortati, la dottrina resta divisa. Nell'Italia repubblicana non si è finora registrato un solo caso di scioglimento deciso con queste motivazioni, per cui sarebbe una primizia assoluta dal sapore di forzatura. Il premier potrebbe rifiutarsi di controfirmare il decreto presidenziale che fissa la data del voto e sollevare (sulla carta) un conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale.
Le istituzioni rischierebbero il caos. In più, se il verdetto referendario darà via libera al taglio dei parlamentari, sarà indispensabile rimettere a norma la legge elettorale. Ciò richiederà che per mesi governo e Parlamento rimangano al posto loro; in caso di scioglimento, per assurdo, non potremmo nemmeno tornare a votare. Il Colle tace, ma tutto questo lassù è ben chiaro.