Alessandro Barbera per “la Stampa”
Nella nuova e scomoda veste di parafulmine delle contraddizioni italiche, Mario Draghi ha incontrato a Berlino Angela Merkel. «Solo uno scambio di idee», fa sapere il portavoce della Cancelliera. Quando la coppia più influente d’Europa si incontra la discussione va però ben oltre. A fine mese a Bruxelles è previsto uno dei più delicati vertici fra i capi di Stato da anni. Emmanuel Macron spinge per un’agenda coraggiosa, la collega tedesca è più cauta: «La solidarietà fra Paesi non può condurre ad una Europa del debito», spiegava domenica alla Frankfurter Allgemeine. Draghi spera di convincerla a fare qualcosa di più.
Il senso del ragionamento sviluppato alla Cancelliera si può riassumere così: in una fase così politicamente delicata per la zona euro, qualunque mossa difensiva può risultare fatale. Negli ultimi giorni si rincorrono di nuovo le voci di una fusione fra Unicredit e Societé Generale, alla quale potrebbe seguire quella fra Intesa Sanpaolo e Commerzbank.
Voci, per ora solo voci, che però confermano quanto la finanza continentale creda ancora nel progetto della moneta unica. Per evitare che il sogno dei padri fondatori imploda occorre che l’Unione bancaria faccia passi avanti. Quello sarà il piatto forte del vertice del 28 e 29 giugno.
I tedeschi resistono all’istituzione di un’assicurazione comune sui depositi, ma senza di essa il mercato del credito non potrà integrarsi fino in fondo. Berlino insiste per avere in cambio la riduzione del rischio bancario, fino al punto di chiedere un limite al possesso dei titoli di Stato.
A questo l’Italia si opporrà, anche se negli incontri di queste settimane fra gli emissari del governo giallo-verde e le istituzioni europee è emersa la disponibilità ad un qualche scambio sul dossier banche con una maggiore flessibilità sui conti pubblici per alzare gli investimenti e la spesa sociale, magari introducendo nel prossimo bilancio un abbozzo del sussidio di disoccupazione comune. Dice la Merkel: «l’Unione ha bisogno di un budget per gli investimenti negli Stati più deboli. Ma occorrono anche finanze solide».
Non sarà facile trovare un punto di incontro. Stretto tra i due fuochi, il presidente Bce resta l’unico punto di riferimento , e dunque anche facile bersaglio. Ieri il Financial Times ha sottolineato che a maggio la quantità di nuovi titoli italiani acquistati da Francoforte è scesa di circa 400 milioni di euro (da quattro miliar di a circa 3,6) rispetto ad aprile, alimentando il sospetto che Draghi l’abbia chiesto di proposito per condizionare l’andamento dello spread e il nuovo governo.
Eppure basta guardare i dati per capire che quanto accaduto ha precise ragioni tecniche. Primo: la Bce opera sui mercati sia acquistando titoli nuovi, sia reinvestendo quelli già in portafoglio, dunque occorre distinguere fra acquisti netti (quelli nuovi) con l’ammontare lordo, che tiene conto dei titoli già posseduti. Complessivamente a maggio quelli italiani sono cresciuti, mentre il calo degli acquisti netti ha interessato - oltre ai Btp - i titoli del Tesoro francesi e spagnoli.
Sono saliti - e di molto - i nuovi acquisti tedeschi, ma ciò perché il mese precedente erano andati a scadenza un’enorme quantità di titoli già in portafoglio, impedendo di acquistarne di nuovi e di rispettare la regola che fissa il tetto agli acquisti in proporzione al capitale Bce posseduto.
C’è poi un secondo argomento: quattrocento milioni di minori acquisti spalmati su circa venti giorni lavorativi al mese significa 20 milioni al giorno. Il mese scorso Francoforte ha dunque comprato venti milioni di titoli in meno al giorno su un totale di scambi medi pari a otto miliardi. «Una polemica ridicola: troppo poco per incidere sullo spread», dice Gianluca Codagnone di Fidentiis.