Maurizio De Giovanni per “La Stampa”
leo messi in bisht coppa del mondo
È stato un momento, un solo momento, quando tutto era finito in cui ho apprezzato la vera, profonda differenza; e non è stato un momento in cui la palla era in gioco, e il magico piede sinistro di piccola misura sotto il magico numero dieci si prendeva le sue responsabilità dipingendo calcio. E non è nemmeno stato un momento di sospensione tra un rigore e l’altro, in cui lo stomaco si chiudeva e il destino sembrava danzare sul filo a cento metri dal suolo.
E nemmeno è stato uno dei momenti in cui il Dieci sussurrava a un compagno dove trovare il coraggio di sopravvivere a quello che stava succedendo, o quando le telecamere cercavano un segno di scoramento o di certezze folli, che facessero presagire come sarebbe andata a finire.
leo messi alza la coppa del mondo 1
Il momento della vera differenza è stato un altro, ma ve lo diremo alla fine. Perché adesso accettiamo di perderci nella più oziosa e inutile delle questioni, nella domanda che ossessivamente viene posta in questi giorni a chiunque, e cioè se questa vittoria, se questa casella finalmente barrata con una V maiuscola, se questa coppa finalmente alzata nel cielo del deserto sia la parola finale su chi sia stato il più Grande di ogni tempo.
A che serve rispondere a questo inutile quesito? Serve agli statistici, che continueranno a pesare le emozioni come fossero numeri? Serve ai giornalisti, che potranno dire di aver celebrato l’uno o l’altro? Serve ai tecnici, impegnati a confrontare due modi di calcare il terreno all’interno di due sport così radicalmente diversi per impegno atletico e tattico? Soprattutto: serve a Lionel Messi, che alla soglia dei trentasei anni taglia finalmente il traguardo più ambito, che sembrava essergli definitivamente sfuggito?
Di certo non serve a Lui, che non c’è più e che ha sempre bonariamente sorriso quando sollecitato sull’argomento senza rispondere mai, perché non stava a Lui rispondere. E di certo non serve a chi lo ha visto in campo, giocandogli contro o al fianco, perché già conosce la risposta. E di certo, e soprattutto, non serve a chi ha avuto la fortuna di riempire gli stadi urlando dalla sua parte, e infatti non ponete la domanda a due popoli, quello argentino e quello napoletano, che sono certi di quello che hanno visto e che non avrebbero dubbi nel pronunciare, in un coro ritmato, lo stesso nome.
Il calcio, sapete, non è uno sport individuale: è uno sport di squadra. Sembra banale, ma è la chiave di volta di ogni discorso. Perché mentre vedevamo il piccolo Lionel alzare fieramente la coppa, e ne condividevamo l’assoluta felicità, riflettevamo su un tempo in cui un certo gol di mano sarebbe stato annullato dal VAR, è vero: ma è altrettanto vero che al primo dei millemila calcioni sferrati a tradimento e a palla lontana, assorbiti senza un lamento, l’avversario feroce del tempo sarebbe stato ammonito e poi espulso, lasciando gli altri in dieci e poi in nove e poi in otto.
Ed è sicuramente vero che quell’Argentina trascinata alla vittoria aveva contenuti tecnici immensamente inferiori a questa, coi Burruchaga e i Valdano a guidare una schiera di sconosciuti, non certo gente come Dybala, Paredes e Lautaro lasciati in panchina al fischio d’inizio.
Ma non è nemmeno questa, la differenza. Perché è sicuramente vero che la vittoria albiceleste di ieri è avvenuta al cospetto di un altro M10, un ventiquattrenne delle banlieue parigine che ha nelle gambe statistiche stratosferiche, pronto a prendersi la corona, muore il re viva il re, avanti un nuovo fenomeno che sposterà le colonne d’Ercole un po’ più in là.
Bill Shankly, allenatore mitico di un mitico Liverpool del tempo dei Beatles, disse una volta: qualcuno dice che il calcio è una questione di vita o di morte. Non sono d’accordo. Il calcio è molto, molto di più. Vero, probabilmente, se ieri siamo rimasti tutti incantati a guardare una partita che forse è stata la più bella della storia del calcio o almeno dei mondiali, una sequenza folle di gol che nemmeno il più mentalmente instabile degli sceneggiatori avrebbe osato immaginare; dimenticando diritti umani calpestati, donne ridotte al rango di schiave domestiche, centinaia di morti nei cantieri per allestire questo spettacolo. E soprattutto dimenticando un sistema di tangenti così consolidato da far traballare perfino le istituzioni europee.
al thani veste messi con la tunica da emiro
Lo spettacolo è stato superbo, e se lo sarà goduto da morire chiunque ami il calcio. Incluso Lui, da sopra le nuvole, come recita il canto degli argentini. E anche Sinisa, innamorato com’era del pallone che ha inseguito per una vita troppo breve. Incluso Mario Sconcerti, che l’avrebbe raccontata in maniera mirabile e profonda, ultima penna letteraria di un giornalismo che purtroppo va scomparendo. E chissà, forse anche Lando Buzzanca, che a un arbitro di calcio ha legato l’inizio della sua incredibile carriera.
Eppure, nonostante quello che diranno gli annali, c’è stato un momento in cui siamo stati certi della differenza. Perché possiamo dirvi con assoluta convinzione che quando l’emiro avesse proposto a Lui di vestire quell’assurdo costume, a coprire la maglietta sporca di sudore e fango, a simboleggiare la proprietà della coppa, del pallone, del campo, del Paese e anche della squadra di club in cui entrambi i numeri dieci della finale di ieri militano e quindi buona per ogni esito della finale, be’, Lui avrebbe rifiutato.
E avrebbe orgogliosamente chiesto: me la date la coppa, per alzarla con la mia maglia addosso e non con questa ridicola vestaglietta velata, o no? Perché altrimenti me ne torno negli spogliatoi.
La differenza è questa. Potete starne certi.
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